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Il Sole 24 Ore

I ristoranti “italiani”? La falsa bandiera del made in Italy... Il lupo americano perde (a tavola) il pelo ma non il vizio. La promozione dei prodotti alimentari italiani negli Usa è vittima di un inganno. Si parte dal banale, ma rassicurante, accostamento al nome dei ristoranti tricolori: “Mamma mia”, “ZiaTeresa” o “Marechiaro” sembrano essere riferimenti irrinunciabili per introdurre o lanciare oltre oceano formaggi, salumi, vini, oli, pasta, mostarde o biscotti. Sono nomi-garanzia. Nei locali che li esibiscono come insegne - a New York, Salt Lake City o Baltimora - la cucina è italiana”. Dunque, il luogo ideale per valorizzare gli ingredienti made in Italy: ricette della tradizione regionale e prodotti del territorio. La realtà è purtroppo diversa. Anzi, il risultato è esattamente contrario alle aspettative, con una formidabile spinta all’incremento di fatturato per l’italian sounding, i falsi ingredienti nostrani, prodotti negli Usa, ma pure in Australia, a cominciare dal parmesan. La “cucina italiana” è, intatti, all’estero un marchio indifeso, la copertura superficiale di un conformistico melting pot gastronomico: cuochi di ogni nazionalità, ricette storpiate nei nomi e nelle preparazioni, qualità mediocre. La “cucina italiana” non è, infatti, un marchio che si può depositare. Nè si può “denunciare” commercialmente chi ne fa un uso improprio, distorce le ricette e, soprattutto, non è italiano. La ristorazione che si professa “made in Italy” negli Usa è definita, nelle ricerche condotte a New York, come “etnica”, al pari di quella cinese, thailandese o coreana. E in questa classificazione non rientrano, guarda caso, la cucina francese e quella giapponese. Si tratta di una ristorazione che fa abitualmente ricorso, pur conoscendo la evidente contraffazione, all’italian sounding i cui prodotti costano meno degli ingredienti importati. Ma, se il prodotto italiano dispone di quelle straordinarie valenze da tutti decantate (qualità, originalità, tradizione), perché allora promuoverlo attraverso i locali di cucina italiana di fascia medio-bassa? Il prodotto italiano deve entrare nella ristorazione di qualunque matrice culturale, non solo in quella etnica. Anzi, lo sforzo maggiore da compiere è conquistare le cucine dei top, degli chef che appaiono su Food Chanel o nei magazine super patinati (come Jean Georges, Bouley, Keller e Dufresne, ai quali va aggiunto un italiano nato a Seattle, Mario Batali). Certo, questo non è sufficiente. E' necessario anche un compromesso storico fra industria e artigianato alimentare, così come è stato sperimentato anni fa dai francesi, maestri nella conquista dei mercati esteri. Un compromesso che potrebbe anche rianimare le promozioni all’estero. Gli interessi dell’industria si differenziano in modo rilevante dalle piccole produzioni, ma potrebbero essere complementari, così come è successo anni fa nel gioco fra stilisti e industria dell’abbigliamento. Perché, dunque, non creare una coalizione, tutta italiana, sulla quale investire le risorse disponibili invece di sprecarle in innumerevoli piccoli rivoli? Gli artigiani e i piccoli produttori come “truppe da sbarco” verso ristoranti di qualità, chef di grido e grandi media. Seguiti, poi, soprattutto nella distribuzione, dalle corazzate delle imprese. Una coalizione che dovrebbe comprendere anche i produttori di vino, già posizionati nei locali di grande livello, in grado quindi di offrire un effetto di trascinamento.

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