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Il Sole 24 Ore

Per i produttori è ora di diventare “grandi” ... Tanto tuonò che piovve. E la natura tornò rigogliosa più di prima. Parlando di vino certo non siamo al diluvio, ma all’orizzonte il tempo sta cambiando. E se il buongiorno si vede dal mattino, anche per la cultura vinicola italiana il giro di boa potrebbe essere a portata di mano. Ma non nel senso della domanda che, purtroppo, resta al disotto delle aspettative, quanto per la capacità delle imprese di interpretare il mercato. E agire di conseguenza, studiando alleanze che accrescano la capacità di fare massa critica.
Ad oggi i maggiori interpreti di questa nuova politica sono le aziende della cooperazione, che comunque pesano per un buon 50% nell’enologia made in Italy.
Ebbene, dopo che per decenni hanno fatto la coda, gli enopoli negli ultimi tempi hanno fatto capire di avere tanta energia in corpo, mettendo in circolo prodotti di ottima qualità: molti vini di cooperative hanno conquistato premi e riconoscimenti prestigiosi in Italia e nel mondo.
Ora la posta in gioco si fa più impegnativa perché è tempo di fidanzamenti. Anzi di matrimoni. Come quello celebrato direcente tra la cantina di Soave che si è presa in casa quella di Montecchia; il sì tra Colli Berici e Colognola; l’incontro tra Casteggio, Broni e Torrevilla.
Operazioni che hanno fatto poco scalpore, per via delle dimensioni ancora modeste. Ora invece il termometro sale. Lo prova la recente decisione delle Cantine Riunite di Reggio Emilia e del consorzio Civ&Civ di Modena di considerare un eventuale sposalizio (si veda il Sole ore del 1° marzo) che potrebbe arrivare già entro l’anno. Unendosi i due enopoli darebbero vita a una forza d’urto da almeno 200 milioni di bottiglie e da 170 milioni di euro di fatturato.
In Italia le aziende di queste dimensioni si contano su una mano: troppo poche per un paese che ha le giuste ambizioni di mantenere posizioni di leadership, in un mercato che però sta cambiando velocemente, con i concorrenti che si presentano sempre più con l’arroganza dei più forti. Ecco allora la necessità di non smettere mai sul fronte della qualità e, anche, di disporre di strutture di dimensioni adeguate. Come quella che potrebbe nascere dalla eventuale fusione Riunite-Civ&Civ. O quella di cui per ora si sente solo bisbigliare in Trentino, tra Cavit e Mezzacorona: insieme diventerebbero il numero uno dell’enologia italiana. Ma per ora sono solo mezze parole che non trovano riscontro tra i diretti interessati. Forse perché sanno meglio di altri che da quelle parti non è ancora tempo di mele mature.
Si dirà: non è la dimensione che fa grande l’Italia del vino, portando a sostegno della tesi il nuovo record delle esportazioni italiane.
Il Paese nel 2007 è arrivato a vendere sui mercati internazionali più di 19 milioni di ettolitri (+1,4%) per 3,5 miliardi di euro (+8,5%). E il segreto di questo successo sta nei vini autoctoni: una miriade di prodotti del territorio che rendono esclusiva l’offerta made in Italy. Un’arma che altri Paesi non hanno. È vero, ma questa logica da sola non può reggere nel lungo periodo: i nuovi Paesi si affidano sempre meno ai vitigni varietali (Chardonnay, Sauvignon, Cabernet, Merlot, Shiraz). Basta fare un giro fuori della vecchia Europa per rendersi conto che da quelle parti si sente parlare sempre più di origine e vini del territorio, anche se i Governi di quei Paesi continuano a ignorare la politica delle Doc. Perché? La risposta è di puro opportunismo: prima di trattare è molto meglio fare il pieno di vitigni tipo Sangiovese, Nebbiolo, Barbera, Primitivo, Nero d’Avola, Trebbiano, Inzolia, Greco. E dopo, solo dopo, converrà aprire un tavolo con l’Europa. Ma a quel punto la strada per chi oggi è leader di vini autoctoni sarà tutta in salita.

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