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Il Sole 24 Ore

Il romanzo dei Florio ... C’è tutto nella parabola dei Florio. Ci sono i vizi della sicilianità e i suoi fragili contrappesi: dissolutezza e potere, ostinazione e volubilità, esaltazione estetica e nichilismo, sfarzo e miseria. Come se tre generazioni di emigranti di Melicuccà, un grumo di rovine e alberi di olivo appesi a mezza costa sul versante Tirrenico della Calabria, inverassero in un cognome solo i romanzi di Verga, De Roberto e Tornasi di Lampedusa. Mastro Don Gesualdo (Vincenzo) I Vicerè (Ignazio senior) e l’epilogo di un Gattopardo borghese (Ignazio junior). Romanzi storici alla maniera ottocentesca, perché i Florio sono l’Ottocento italiano così come gli Agnelli portano le stimmate del Novecento. Cento anni e poco più, dal Congresso di Vienna al fascismo: e in fondo è la rivincita dei vinti poter raccontare, come fa Grazio Cancila, che a quel tempo la Palermo dei Florio contasse più della Milano dei Pirelli e della Torino degli Agnelli. Prima ancora che i reali d’Inghilterra, lo zar Nicola I e l’imperatore tedesco Guglielmo II, in visita di Stato in Italia, chinarono la testa per sfiorare le mani di Donna Franca Jacona Notarbartolo di Sangiuliano. Villa Igiea e i suoi ricami liberty come Buckingham palace.
All’origine di una dinastia c’è sempre una scintilla, il furore dell’intrapresa. Vincenzo si trasferisce a Palermo e in via del Materassai, un quartiere popolare dove s’insinua il grecale che prende di petto la Marina, commercia in droghe. Dal cortile, un antimalarico, nascerà il logo della Casa di Commercio Florio, quel “leone bevente” esausto che ritrova vigore dopo essersi abbeverato alla polvere miracolosa disciolta in una pozza d’acqua.
A quel tempo Palermo è la residenza provvisoria di Ferdinando II in fuga da Napoli per l’avanzata dei francesi. A proteggerlo ci sono i vascelli della Marina di Sua maestà britannica al comando di Orazio Nelson. Ora il figlio di Paolo e nipote di Ignazio, lo zio venerato che getta le basi dell’impero industriale, può cominciare la scalata. La Sicilia ha bisogno di tutto. È una terra ricca ma affamata, eternamente divisa tra gli aristocratici del latifondo e uno sterminato esercito di poveri. Di borghesia produttiva autoctona neppure l’ombra. Almeno fino alla comparsa sulla scena palermitana di Vincenzo, che mette a frutto la lezione di Beniamino Ingham, a quei tempi l’uomo più ricco dell’isola, e John Woodhouse, l’inventore del marsala. La compagnia di piroscafi, i cantieri, le miniere di zolfo, la fonderia Orotea, la cantina del vino Marsala, le tonnare: Vincenzo, anzi il senatore Vincenzo, che a Palermo chiamano il “facchino fortunato”, con moglie borghese (e milanese), edifica. Il figlio Ignazio, colto, cosmopolita, dai modi morbidi e cortesi, amico fraterno di Francesco Crispi e del marchese di Rudini, che si succederanno alla guida dei governi italiani prima dell’età giolittiana, consolida ed espande. Con Ignazio la Navigazione generale italiana -106 piroscafi che solcano i mari italiani e l’Atlantico alla volta delle Americhe - diventa la prima compagnia marittima italiana e tra le maggiori d’Europa. Centosei navi che raccontano le pagine più tetre della storia patria, le miserie di una nazione che su quei piroscafi deporterà milioni di italiani affamati (e un milione e mezzo di siciliani) nelle Americhe; la megalomania della politica colonialistica crispina, che chiederà aiuto ai Florio per trasportare in Africa le truppe che avrebbero dovuto costruire l’Impero e invece saranno decimate dalla carneficina di Adua.
La fine del secolo è lo spartiacque tra due epoche. Ignazio senior muore a 52 anni senza intuire che l’elettricità, il telefono e le ferrovie cambieranno il mondo. Meno di lui lo intuisce il figlio, Ignazino junior, educato nelle migliori scuole d’Europa, di gusti raffinati, sensibilissimo al fascino femminile e catapultato in prima linea a 23 anni. Se il padre è legatissimo al suo vecchio panfilo che ormeggia davanti la tonnara di Favignana, il Mary Queen (i Florio avevano comprato anche le tre isole Egadi), il figlio ne esibisce quattro sempre perfettamente allineati alla marina di Villa Igiea. L’ultimo, l’Aegusa, lo regala a donna Franca - famosi i suoi gioielli e la collana di perle lunga sette metri - per farsi perdonare i tradimenti compulsivi in giro per il mondo, l’innamoramento di una donna sposata e madre di quattro figli, Vera Arrivabene e forse il duello con il marito dell’amante.
Il lavoro è la parentesi di lunghi week end. I primi ministri siciliani e amici escono di scena, le sovvenzioni statali alla Navigazione generale italiana sono sempre più risicate e sofferte, la borghesia settentrionale scalpita in cerca di un ruolo egemone. Ignazino rema controcorrente e fonda il quotidiano “L’Ora” per osteggiare Giolitti, primo ministro piemontese. Un tentativo disperato a difesa di una sicilianità che pure allora trasudava strumentalità e propaganda. Vincenzo, il fratello minore che inventa la Targa Florio, si sfoga correndo in automobile. La vita dispendiosissima della famiglia e la crisi che segue la fine del primo conflitto mondiale corrodono le basi finanziarie dell’impero. Per eccesso di orgoglio (“i siciliani sono troppo volubili e troppo ostinati”, fa dire agli Uzeda De Roberto nei Viceré) Ignazio rifiuta di firmare un accordo tra i creditori la cui trama è stata pazientemente tessuta dal direttore generale della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher. È l’inizio della fine. Gli ultimi 25 anni di vita infliggeranno all’ex capitano d’industria le contorsioni di una umiliante indigenza.

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