02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Il Sole 24 Ore

La lotta di classe è servita … “Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”: il detto risale ai tempi in cui il cacio era un cibo da poveri, mentre la frutta pregiata era riservata ai signori. Il loro connubio segnò una rivoluzione… Si racconta che Carlo Magno capitò all’improvviso a pranzo da un vescovo. Era venerdì, giorno di magro, e il prelato non aveva da offrirgli che un formaggio.
L’imperatore prese il coltello, tagliò via la crosta e cominciò a mangiare. Il vescovo non seppe trattenersi e gli disse: “Perché fai così? Quella che butti via è la parte migliore”. Carlo, cui non piaceva essere contraddetto, assaggiò la crosta, trovò che era davvero buona e ribattè velenosamente: “Hai ragione, e allora fa in modo di mandarmi ogni anno ad Aquisgrana due carri di questi formaggi”. Almeno da quando Lévi-Strauss pubblicò, nel fatidico 1968, “Le origini delle buone maniere a tavola” sappiamo che convenzioni a prima vista insignificanti come quelle che regolano il nostro stare a tavola nascondono dense valenze simboliche: ma quando c’è di mezzo il formaggio si direbbe che tutto diventi più complicato. Infatti, perché mai Carlo Magno si arrabbia tanto? Perché il vescovo non ha apprezzato il suo savoir-vivre e si è dimostrato un rustico, indegno di stare a tavola coll’imperatore?
O forse, perché il: ha ricordato avventatamene un piacere proibito, che solo i contadini possono concedersi, e che a corte dev’essere sacrificato alle regole della buona educazione? L’ambiguità sociale del formaggio è il punto di partenza del percorso con cui Massimo Montanari arriva a decifrare un proverbio tanto noto quanto a prima vista incomprensibile i “Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio”. Laterza, pagg. 162, € 15.00 ). Perché mai al contadino non bisogna far sapere quant’è buono il formaggio con le pere?
Il fatto è che al villano il formaggio si addice, anzi è uno dei suoi cibi tipici, almeno in quelle società europee che. al contrario di quelle dell’Estremo Oriente, possiedono nel loro Dna le proteine necessa-rie a digerire il latte. È vero che è troppo buono per essere lasciato ai poveracci, sicché i signori non lo sdegnano affatto; ma sempre a rischio di qualche brutta figura, e comunque suscitando la riprovazione dei dietologi medievali, ai cui occhi una tal vivanda non poteva che far male a stornaci delicati. Tutt’altra cosa con le pere: che il contadino coltiva, si, ma non assaggia, perché ce ne sono poche, e come si sa non durano, sicché in assenza dei moderni mezzi di conservazione e di trasporto una pera matura in vendita sul mercato non può che essere mercé rara e costosa. Di qui il paradosso per cui nei secoli passati si conoscevano innumerevoli qualità di pere, molte di più di quelle che possiamo gustare oggi, nonostante gli sforzi di Carlìn Petrini; ma la stragrande (maggioranza della gente non le assaggia - Iva mai, o si accontentava delle varietà più aspre e legnose, buone per i porci. Le pere vere, che si sciolgono in bocca, erano cosa da signori; e un’intera cassetta di pere era regalo da principi. A prima vista, dunque, ecco due protagonisti della tavola che non erano fatti per incontrarsi. Per capire come l’incontro sia stato possibile, Montanari si inoltra in territori poco noti, evidenziando come la civiltà occidentale abbia costruito in passato interi ambiti di sapere e di saper-vivere, li abbia conservati e affinati per secoli, per poi gettarli via e sostituirli con altri, così radicalmente che oggi non ne sospettiamo nemmeno l’esistenza.
È il caso della dottrina galenica degli umori corporei, i cui complicati equilibri non regolavano soltanto la teoria e la prassi medica, ma anche l’arte culinaria: sicché un cuoco di corte, fra Medioevo ed età barocca, doveva disporre d’una formazione filosofica e medica da far impallidire il più intellettuale dei nostri chef.
Ed è il caso dell’ordine delle portate, che fino a tempi abbastanza recenti prevedeva l’arrivo in tavola di molte vivande tutte insieme, accostate secondo raffinate strategie: solo nell’Ottocento si afferma il “servizio alla russa”, e cioè il sistema attuale di portare in tavola un piatto per volta. Proprio nell’intreccio fra questi saperi avviene l’incontro tra formaggio e frutta, entrambi ritenuti ottimi per chiudere lo stomaco e sciogliere i cibi in base alle qualità attribuite loro dalla medicina galenica, e perciò consigliati come dessert nei trattati medievali e rinascimentali: un consiglio che tutti quanti continuiamo fedelmente a seguire, senza sapere perché e magari credendo che mangiare formaggio e frutta a fine pasto sia semplicemente “naturale”. Senonché, quando la frutta in questione è del genere più nobile, il matrimonio compie anche un pic-colo miracolo di ascesa sociale. Mettere insieme il formaggio e le pere significa riscattare cacio e stracchino dalla loro umiltà contadina e trasfigurarli in cibo degno d’una tavola nobile, permettendo, finalmente, alla gente bennata di godere d’un piacere altrimenti riservato ai villani. Perché il gioco sia completo, però, bisogna che i contadini non lo sappiano: ed ecco, allora, la nascita e la diffusione del proverbio incriminato, che come spesso accade si finge “saggezza popolare”, ma una volta smascherato rivela la sua natura ferocemente classista.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su