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Il Sole 24 Ore

Che rivoluzioni in cucina ... La “nouvelle cuisine” degli anni ottanta e le successive “fusion” e “nueva” sono ormai soppiantate dalla riscoperta dei giacimenti gastronomici italiani... Venticinque anni di rivoluzioni mancate, di riforme - solo in parte riuscite - sicuramente di grandi cambiamenti. Così si può fotografare oggi il sistema cibo (cum vino, of course). In questo lasso di tempo sono scoppiati e poi declinati fenomeni quali la “nouvelle cuisine”, la “fusion”, l’utilizzo indiscriminato della barrique nelle cantine. Allo stesso tempo sono nate dicotomie tra globale e locale nella produzione e nell’uso dei prodotti agroalimentari e si è aperto l’orizzonte del cibo come “medium del territorio”.Nello scenario che via via è emerso il cibo ha cominciato a trascendere la valenza organolettica di profumo e sapore portando alla riscoperta delle radici, l’interesse per i territori, il desiderio di conoscerne la storia, la sensibilità per gli aspetti antropologici. Vino, formaggi, salumi hanno assunto la funzione di medium in grado non solo di comunicare cultura materiale, emozioni, gusto ma anche di generare valore nel territorio, innescando addirittura inattesi germi d’imprenditorialità. Culatello di Zibello, tartufo d’Alba, aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio Emilia, lardo di Colonnata, Parmigiano Reggiano, prosciutto di Parma, San Daniele eccetera; che l’Italia possedesse un patrimonio di sapori era noto anche negli anni Sessanta e Settanta, meno risaputo è che questi “giacimenti gastronomici” sempre più potessero diventare, come sono, l’ingrediente base della crescita economica di molti territori depressi della penisola.
Non più solamente chicche da assaggiare, ma autentico motivo di richiamo per novelli “viaggiatori del gusto” o ancor meglio, gastronauti, capaci di spingersi in territori dove nessuno si sarebbe mai spinto prima. Sotto questo punto di vista questi “giacimenti’ sono riusciti a mostrare le stesse valenze delle opere d’arte e, come quelle, sono riusciti a trasformare in meta turistica luoghi altrimenti privi di attrattive. Il fatto bizzarro è che, frutto di tradizioni locali e di sapori ancestrali, sono diventati la barriera contro l’omologazione del gusto, generata dalla globalizzazione culturale e alimentare, sebbene proprio da alcuni aspetti della globalizzazione sia originata la riscoperta geografica del locale. Il viaggiatore del gusto ha, tra l’altro, diffuso l’interesse di capire cosa si nasconda dietro a ciò che si mangia e si beve; un cambiamento accelerato soprattutto dai tanti scandali del settore alimentare: metanolo, aviaria, Bse (il morbo della mucca pazza). Oggi il consumatore vuole conoscere ciò che mangia e purtroppo la trasparenza nel settore è ancora una chimera nonostante etichette e targhette, spesso indecifrabili “L’uomo non è ciò che mangia” ma sempre più “l’uomo è ciò che immagina di mangiare”. Forse ci vorranno altri 25 anni per avere certezze su ciò che si acquista. L’evoluzione (per molti involuzione) tra i fornelli è stata davvero molto consistente. Negli anni Ottanta la nouvelle cuisine di stampo francese (Michel Gherard, Paul Bocuse, i fratelli Troisgros), basata sulle cotture più leggere, sulla ricerca dei cromatismi, su accostamenti inconsueti, ha influenzato le cucine di ogni dove, a cominciare dalla giapponese da cui aveva tratto alcuni insegnamenti. In molti casi, a cominciare dall’Italia il suo passaggio ha lasciato macerie: cuochi e ristoratori improvvisati sulle ali della moda, interpretazioni ridicole del suo verbo nella scelta degli accoppiamenti,utilizzo di prodotti soprattutto francesi ma anche esotici in luogo di quelli locali. Poi è venuta la fusion cuisine degli anni Novanta. Figlia della globalizzazione, perché risultato della rapida circolazione delle merci, delle persone e di conseguenza delle differenti culture, questa corrente gastronomica utilizza ingredienti “globali” cucinati con tecniche nazionali. Nouvelle, fusion e quindi la nueva nouvelle cuisine guidata dallo spagnolo Ferran Adrià, lo chef che ha rotto i codici della cucina, creando un nuovo modello incentrato sulla creatività assoluta di piatti. Un arrivo sulla scena, quello di Adrià, davvero esplosivo perché ha creato seguaci, più o meno validi - soprattutto copiatori senza la sua capacità - in tutto il mondo.

Questi movimenti hanno certamente “scosso” la ristorazione made in Italy, ma allo stesso tempo non sono riusciti a contaminare le cucine italiane di tradizione locale, maturate in questi a anni al punto da diventare un riferimento a livello internazionale. Non è certo la cucina della nonna, basandosi da un lato sull’uso delle materie prime e territoriali, dall’altro sulle cresciute capacità tecnico creative di chef emergenti. Le cucine italiane (il plurale è d’obbligo) degli anni 2000 possono giocare un molo importante a livello internazionale, diverso da quello assai insignificante del passato. Sine qua non.

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