02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Il Sole 24 Ore

Al ministero delle Politiche agricole sono pervenute oltre 320 domande per nuovi disciplinari o modifiche… … Vino italiano alla terra delle Doc … Ad Asti la città non fa parte della denominazione dello spumante piemontese… Scoppia la guerra delle denominazioni d’origine. Si accende infatti lo scontro sui vini Doc e nell’occhio del ciclone finiscono Piemonte, Emilia Romagna e Puglia. Tutto nasce dalla recente riforma dell’Ocm vino, con la quale la Commissione europea ha accentrato a Bruxelles le procedure per modificare le regole dei vini Doc sottraendo così l’istruttoria ai paesi membri. A questi ultimi però è stata riservata la possibilità di esaminare con le procedure nazionali (entro il 2011) tutte le pratiche pervenute entro una data limite (l’1 agosto 2009). E al ministero per le Politiche agricole a quella data sono giunte ben 320 richieste di modifica di disciplinari o di istituzione di nuove Doc. Fra queste molte riguardano le modifiche dell’area di produzione, d’imbottigliamento o di vinificazione. Questioni da sempre terreno di battaglie (a colpi di ricorsi al Tar) fra produttori e imbottigliatori e che promettono di creare più di un attrito anche oggi.

L’Asti Docg

Il principale scontro si sta registrando ad Asti, in Piemonte, dove la querelle rischia inoltre di pesare su un momento di mercato favorevole. La vera e propria “febbre” da vini dolci scoppiata negli Usa porterà infatti lo spumante Docg a chiudere l’anno in progresso del 10-15%, mentre per il Moscato d’Asti si parla di un incremento addirittura del so per cento. Ma i risultati positivi non bastano a spegnere le polemiche. Ad Asti si sta cercando di porre rimedio a un vero e proprio paradosso: il disciplinare di produzione nell’elenco dei 52 comuni dove si può produrre la Docg non contempla il comune di Asti. Insomma la cittadina che dà il nome alla denominazione è esclusa dall’area nella quale si può produrre lo spumante piemontese. Nel 2008 una prima correzione disposta da un decreto ministeriale fu poi bocciata dal Tar. Ora una nuova proposta è stata avanzata dal Consorzio di tutela sollevando però le proteste di una fetta di produttori. I viticoltori, alle prese con il blocco degli impianti, temono che l’allargamento possa consentire a pochi (che hanno piantato vigneti ad Asti pur non potendo utilizzare l’etichetta Docg) la possibilità di avere nuovi ettari riconosciuti (si parla di 20 ettari sui 10mila totali). Possibilità invece preclusa ai produttori storici. “Ma il loro rifiuto resta incomprensibile - spiega il presidente del Consorzio dell’Asti Docg, Paolo Ricagno - soprattutto alla luce del rischio che il nostro vino corre di restare senza nome”. La recente sentenza Ue sul Tocai (il nome del vino assegnato in esclusiva agli Ungheresi dell’area del Tokaji a danno dei viticoltori friulani) ha infatti sancito che il nome di una denominazione è blindato solo se prevede al suo interno un nome geografico. “Pertanto - conclude Ricagno - se qualche viticoltore contestasse dinanzi alla Corte di giustizia Ue l’esclusione del comune di Asti, i magistrati Ue non potrebbero che confermare il proprio orientamento assegnando il nome alla minoranza di viticoltori astigiani vietandolo a tutti gli altri”.

Il Lambrusco Emilia Igt

Ma la querelle piemontese non è l’unica. Altro fronte caldo è in Emilia Romagna dove, come previsto dalle regole Ue, occorre definire l’area di vinificazione dei vini Igt. Un perimetro (la cui delimitazione non era prevista in passato) che dovrebbe coincidere con l’area di produzione delle uve. Nel caso però del Lambrusco Igt Emilia, far coincidere area di vinificazione e area di produzione rischia di tagliar fuori le provincie fuori regione nelle quali il Lambrusco viene realizzato. Secondo i dati delle Camere di commercio sui complessivi 800mila ettolitri di Lambrusco Igt Emilia, circa 160mila (pari al 19% del totale) sono realizzati in altre regioni (95mila in Veneto, 40mila in Lombardia e 23mila in Piemonte). Contro la decisione, è sceso in campo l’assessore all’Agricoltura della Regione Lombardia, Giulio De Capitani che ha chiesto al collega dell’Emilia Romagna, Tiberio Rabboni, “di riconsiderare la scelta che comporterebbe un notevole danno economico per i produttori di Cremona”. “La proposta di delimitare l’area di vinificazione - ribatte invece il direttore del Consorzio del Lambrusco di Modena, Ermi Bagni - dipende anche dalla necessità di maggiori controlli. Troppo spesso in passato abbiamo riscontrato dati discordanti fra quintali di uve prodotti e numero di bottiglie commercializzate come Igt Emilia. La soglia minima dell’85% di uve Lambrusco deve essere rispettata. Altrimenti, per un vino che al 65% va all’estero, c’è il rischio di un pessimo ritorno di immagine”.

La disfida pugliese

L’ultima battaglia, almeno in ordine di tempo, è quella che si è giocata in Puglia dove un gruppo di produttori della provincia di Foggia ha promosso il riconoscimento di una nuova Doc “Terre del Nero di Troia”. L’eventuale ok del ministero rischierebbe però di precludere ad altri produttori l’indicazione in etichetta del nome del vitigno “Nero di Troia”. Contro questa proposta sono così insorti i produttori delle altre province e in particolare di Barletta, Andria e Trani che, dati alla mano, hanno dimostrato come dal foggiano provenga appena il 9% della produzione da uve Nero di Troia contro il 00% invece che è realizzato dai viticoltori dei cinque consorzi della provincia Bat. E così il percorso verso la trentacinquesima denominazione pugliese sembra, al momento, bloccato.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su