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Il Venerdì di Repubblica

In alto i calici ai vini italiani serve un pieno di brand … Lorenzo Tersi di mestiere costruisce filiere enologiche e sul dopo-lockdown ha le idee chiari: “Dobbiamo lavorare soprattutto sull’identità dei nostri prodotti. Unendo le forze”…Non chiedete a Lorenzo Tersi se produce vino. Vi dirà di no. Eppure vi trascina tra i vigneti, vi fa entrare nelle cantine fresche pregne di profumo acre e poi a osservare braccianti e imprenditori in fiera, e tir che attraversano le Alpi. Finirete per perdervi tra i brand, numeri e mercati, tutti quelli che corrono sulle curve dolci delle Langhe giù fino alle falde dell’Etna. Perché il suo lavoro è questo: forgia filiere enologiche. Se 1’è inventato, dicono gli amici. Aveva pronto anche un nome: wine advisor. Semplice, no? Non proprio. Non lo era prima, tantomeno ora che la pandemia ha riscritto anche le tavole di casa e i plateatici delle osterie. E non è un affare semplice, perché quello del vino è un mondo antico e anche piuttosto geloso, ognuno della propria vigna. Solo che il mondo è cambiato e non ci si può più permettere di perdersi, come è capitato ai produttori veneti di Prosecco: erano sicuri di conquistare la Cina e hanno finito per scoprire che quel vino giovane e nervoso si abbina poco ai sapori ovattati del Grande Impero. Perché in gioco qui c’è la filiera del palato, che vale qualcosa come 13 miliardi di euro, ed è il nostro petrolio. Abbiamo bevuto di più. Non sarà un lavoro semplice il suo, ma a forza di farlo Lorenzo Tersi si è trovato tra i primi 100 influencer del mondo enologico. Cesenate, oltre alla sua LT Wine&Food Advisory, con cui ha curato progetti strategici per decine di imprese, è presidente della Venturini Baldini di Reggio Emilia, coordina le politiche di marketing per il Consorzio Vino Chianti di Firenze ed è nel consiglio d’amministrazione di Cesena Fiere. Dunque: ha un osservatorio privilegiato e può raccontarci come si stapperanno le bottiglie nel futuro prossimo. Mette subito in chiaro: “È arrivato il tempo di collaborare, più che di competere”. Allora bisogna partire da un dato che è anche una confessione: durante il lockdown abbiamo bevuto di più. Un’indagine di Vinitaly e Iri ha svelato che da gennaio a metà aprile gli acquisti di vino sono aumentati del 7,9 per cento in termini di volume e del 6,9 per cento in valore. Una fotografia impietosa: siamo andati a far man bassa nei supermercati soprattutto, per armare Zoom-aperitivi (il Prosecco è volato a +8,3 per cento) e accompagnare gli sfornati con Bag in Box (il tetrapack di 3 e 5 litri con rubi-netto: + 36,8). “Ma niente di tutto questo riesce a coprire la perdita colossale del settore”, riflette Tersi. “L’Italia esporta metà della produzione e in casa è il turismo che trascina hotel, bar, ristorazione e catering”, quello che in gergo si chiama Horeca e che “è arrivato a contrarsi fino a1 70 per cento”. E chi vi è legato indirettamente, “perderà quest’anno almeno il 30 per cento”. Durante il lockdown abbiamo anche rovistato tanto online: portali come Winonwine hanno venduto più del 700 per cento rispetto ai primi mesi del 2019 e Vino75.com è passato da 1.700 bottiglie al giorno alle 10 mila di quest’anno. Ma restano numeri piccoli: nel mondo l’Italia vende solo lo 0,7 per cento. Eppure, la cosa ha attirato l’attenzione e così si spiega perché un colosso come Campari abbia acquisito di recente la piattaforma Tannico. Joint venture temporanee. “Resto affezionato all'onland” sorride Tersi, “alle cantine aperte alle visite e ai sensi. Ma insieme, onland e online, sono una grande forza. Del digitale dobbiamo ancora esplorare tutte le potenzialità: saper narrare, raggiungere nuovi consumatori e soprattutto collegarsi con gli altri produttori, penso alle possibilità poco sfruttate di LinkedIn”. Perché è questo il vero nodo della questione. Passati gli anni della guerra all’ultima etichetta, tra le vigne si fa strada l’idea di prendere il meglio delle radici più cooperative che hanno segnato la storia enologica del Paese. E farlo nell’ignoto di un mondo stravolto. “Le grandi aziende hanno la forza per reggere e farsi strada, ma sono i piccoli che devono ripensare tutto”. Ma come? “Unendo le forze”. Primo: “Siamo il Paese della biodiversità: abbiamo quasi cinquecento tipologie di vitigni autoctoni”. Secondo: “Fare brand building”. Cosa? “Costruire brand del prodotto e del territorio assieme: il Verdicchio, ad esempio, non ha un brand territoriale. In Australia invece sono stati bravi a farlo”. E ancora: “Rafforzarsi con aumenti di capitale, partecipazioni societarie e soprattutto joint venture distributive. Costruire Ati, associazioni temporanee di impresa, e moltiplicare la forza: penso a cosa potrebbe essere una cordata di produttori marchigiani, friulani, siciliani e della Valpolicella assieme”. Obiettivo Hong Kong. Insomma, allearsi sulle cose, cooperare. E a tutto campo: “Con il food identitario, ad esempio”. E così torna in campo la comunità locale. Vale per i piccoli e solitari produttori e vale per le tante cooperative che coprono peraltro il 50 per cento del settore, con eccellenze in Puglia, Abruzzo e Sicilia e a cui spesso mancano marchi: “Dovranno comprare brand e mettere un ombrello riconoscibile sui vigneti”. Se questa è la ricetta possibile, “si tratterà poi di scegliere le fiere”, che nella storia hanno superato qualsiasi pandemia e qualunque guerra. “Significa saper stare nelle tre grandi in Europa, vale a dire Vinitaly, Düsseldorf e Bordeaux e selezionare con oculatezza tra le tante regionali”. L’obiettivo è portare i Colli tortonesi o i vini dell’Etna sulle tavole di Hong Kong. Eppure, prima di ogni cosa, sarà necessario tornare alla terra.

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