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Il Venerdì Di Repubblica

Davvero ottimo questo vino vietiamone la vendita … Il fragolino, il clinto, il baco. Poichè ottenuti da viti ibride e quindi considerati per legge poco sicuri, non possono finire sugli scafali. Ma i vignaioli veneti ora fanno fronte comune… “Ho quatro filari di viti nella ghiaia dietro l’azienda, non gli ho mai dato da bere e hanno fatto uva lo stesso, anche con il caldo di quest’anno. Mentre su quelle da viticoltura tradizionale c’era poco e niente. Quattro filari resistentissimi di viti ibride, ottenute fecondando il fiore di un vitigno con il polline di un altro, che non hanno bisogno di acqua né di trattamenti. Eppure posso produrre il vino soltanto per mio consumo, venderlo è vietato”. Fontigo di Sernaglia della Battaglia, provincia di Treviso: solo in questa frazione di 829 abitanti si producono all'anno trentamila litri di “vino proibito”, o “ribelle”, come preferiscono dire qui, tra miraggio autonomista e senso di rivalsa contro le norme europee. “Ci costringono a favorire viti deboli e bisognose di antiparassitari e fitofarmaci rispetto a quelle resistenti e biologiche che coltiviamo da sempre”, si lamenta Franco Zambon, presidente dell'associazione Clinto de marca, che insieme alla Confraternita del Clinto - in tutto 300 iscritti - e in rete con altri gruppi europei, si batte per cambiare l’attuale normativa che vieta il commercio di vini come il Fragonna, il Clinto, il Clinton e il Bacò. I vini dei nonni, dolci e a bassa gradazione alcolica, che oggi si possono produrre solo per l’autoconsumo. “Dicono non siano di buona qualità, ma lasciate dire a noi che cosa ci piace e che cosa no”, sbotta Zambon, che in cantina ha una collezione di duemila bottiglie. A raccontare la storia di alcune di queste viti, conosciute come ibridi produttori diretti (Ipd), è Angelo Costacurta -già direttore del Centro di ricerca per la viticoltura e l’enologia di Conegliano-nel libro Vini proibiti, in uscita in questi giorni per Kellerman editore. “Tra gli anni Cinquanta e Settanta dell’Ottocento tra le viti europee si diffusero alcune malattie arrivate dall’America”, spiega Costacurta. “Poiché le viti americane erano resistenti a queste patologie, si trovarono due possibili soluzioni: creare ibridi incrociando le varietà europee con specie americane oppure innestare le varietà europee su quelle americane”. La storia premiò la seconda opzione: tutte le viti europee oggi sono innestate su radici americane. Ma tra fine Ottocento e inizi Novecento si diffusero, soprattutto in Francia, anche molte viti ibride. Producevano vino di qualità mediocre, che spesso conteneva più metanolo, una sostanza tossica presente anche nel vino tradizionale anche se non dannosa sotto certi livelli. In compenso avevano due vantaggi non di poco conto: elevata produzione di uva e resistenza alle malattie. “In alcune aree del Nord Italia, come il Veneto orientale, alla situazione economica già difficile nelle campagne si aggiunsero i disastri di due guerre mondiali e la difficoltà di acquistare zolfo e rame per i trattamenti antiparassitari. Le viti ibride erano spesso l’unico modo per vinificare, ottenendo vino con basse gradazioni, spesso da sorseggiare al lavoro durante la giornata e allungato con l’acqua”, spiega Costacurta. Le viti ibride si diffusero a tal punto in alcune zone che, temendo potessero soppiantare le varietà autoctone, alcuni Paesi negli anni Trenta cominciarono a vietarle: tra questi l’Italia. L’Unione europea ha in seguito fatto proprie queste norme. Le viti ibride, tuttavia, non sono un capitolo interrotto nella storia della viticoltura europea. Benché messe al bando, nei centri di ricerca si continuarono a fare incroci per ottenere varietà più resistenti e che non richiedessero l’uso di fitofarmaci: “A partire dagli anni Sessanta, sulla spinta del partito verde e dei movimenti ecologisti tedeschi, la Germania investì molto su queste ricerche per creare viti resistenti, chiamate Piwi”, spiega Attilio Scienza, tra i massimi esperti italiani di viticoltura. “Lo stesso in seguito accadde in Svizzera, Francia, Ungheria e più recentemente in Italia. Con incroci ricorrenti si sono ottenute varietà autoctone con appena il 5 per cento di apporto genetico delle viti americane”. Ibridi di sesta o settima generazione con cui oggi in Francia si producono anche vini Doc; mentre in Italia queste varietà, coltivabili solo in alcune regioni, consentono di produrre solo vini Igt a causa di una legge - che molti si stanno battendo per cambiare - che vieta la produzione di vini Do(Denominazione di origine) da viti ibride. Tuttavia, pensare di creare una varietà resistente per ogni varietà autoctona, circa 600, è difficile. Per svilupparne una servono almeno dieci anni e centomila euro con il rischio che alcune varietà più resistenti possano, visti gli alti costi, affermarsi sulle altre riducendo la ricchezza vincola italiana. Il dibattito sulle nuove viti resistenti ha riacceso le sperare di chi vorrebbe legalizzare anche i vini prodotti da ibridi di seconda generazione, come Fragolino e Clinto. Ma la scienza spiega che ci sono delle differenze: “La qualità nei vini di seconda generazione è bassa, mentre una varietà Piwi è del tutto simile a una autoctona. Inoltre le varietà americane hanno una dose maggiore di pectine, che nel processo di vinificazione producono metanolo. Mentre i nuovi incroci sono selezionati per non produrne”. I viticoltori veneti premono per riabilitare i vini proibiti nel quadro delle Piccole produzioni locali: una norma regionale, recepita poi in tutta Italia, consente ai piccoli produttori la lavorazione e vendita diretta in ambito locale di determinati prodotti. “Se fra questi si includessero anche i nostri vini, li potremmo vendere senza fare concorrenza a quello tradizionale”, spiega Zambon. “Così la sicurezza, su cui noi non abbiamo dubbi, sarebbe garantita”.

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