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Il Venerdi Di Repubblica

Fatti nostri ... Per li vino italiano le notizie sono buone: nel primo semestre del 2006 abbiamo venduto più di ogni altro paese nel mercato degli Stati Uniti, un milione di ettolitri, superando l’Australia a 910.000, la Francia a 466.000, Argentina e Cile. Secondo alcuni produttori italiani la ragione è che gli americani si sono stancati dei vini “alla francese”, dei Cabernet e Merlot prodotti in ogni parte del mondo, anonimi, privi dì identità. E preferiscono i nostri che l’identità ce l’hanno, marcatissima.
Da questa spiegazione generica si distacca "le roi" Angelo Gaia, signore del Barbaresco. Dice Gaja: “Stiamo al concreto. Che cosa è che in questi ultimi anni ha dato un aiuto decisivo ai nostri vini? La cucina italiana. Dalle inchieste che si susseguono nella stampa specialistica americana risulta che la nostra cucina è di gran lunga la preferita in quel paese. È la ristorazione italiana negli Stati Uniti il vero motore della crescita delle nostre esportazioni alimentari. La controprova è che nei paesi in cui la nostra ristorazione è debole, debole è anche la nostra esportazione. E allora il problema è: se vogliamo aumentare l’esportazione dei prodotti alimentari dobbiamo favorire l’espansione di ristoranti di cucina italiana e l’esportazione di cuochi italiani”.
Ma c’è un punto debole, osserva Gaja. E non è il mancato appoggio di giornalisti e scrittori, che anzi hanno svelato della nostra cucina non solo le ricette ma anche l’anima. Piuttosto è la mancanza o la debolezza di strumenti dì colonizzazione come la Guida Michelin. “Abbiamo anche noi ottime guide di ristoranti, ma non un’istituzione come la Michelin, che, anche quando sbaglia o è disattenta, gode di una credibilità assoluta e fa un servizio preziosissimo nel divulgare la cucina francese e nel privilegiare i prodotti francesi. Perché lasciare alla Michelin un dominio planetario assoluto? Perché non competere con essa in modo serio e leale?”. Credo, caro
Gaja, che la risposta sia nell’Artusi, la Bibbia della cucina italiana. Un libro incantevole per i letterati che si intendono di cucina, ma troppo legato alla persona e agli estri e al provincialismo dell’Artusi. Poca organizzazione editoriale, poca guida di informazione e di servizio, assenza di un progetto editoriale, Ma credo ci arriveremo.

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