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Il Venerdi Di Repubblica

Come se non bastasse, la tv fa anche ingrassare ... Qualche giorno d’influenza permette di leggere libri arretrati e di controllare a che livello è arrivata la televisione. Non sarà una gran scoperta per chi la guarda spesso, ma per chi ormai l’accende quasi soltanto con 38 di febbre, è sorprendente quanto la televisione italiana parli di cibo.
Dall’alba a notte fonda, insomma lontano dai pasti, sugli schermi di tutte le reti è un continuo sfrigolare di pentole, un elenco di specialità, una sfilata di cuochi e ristoratori ormai promossi a maitres à penser. Perfino quelle poche trasmissioni superstiti della Rai d’una volta, quella che raccontava ancora il Paese e le sue bellezze, sono diventate una specie di supporto visivo del Gambero Rosso. Tre inquadrature di monumenti, dai quali spunta inevitabilmente un ciarliero assessore, e poi via a far bisboccia culinaria con le specialità del luogo. A Rimini il tempio malatestiano è surclassato dai passatelli in brodo, il barocco napoletano cede il passo alla vera ricetta del ragù, la pajata interrompe il giro dei Fori (ubi maior). C’è roba da mangiare ovunque, non si fanno mancare nulla, in un delirio di spezie, fra i mugoli dei presentatori. Quando la trasmissione s’interrompe, per un breve sollievo, passano spot con altro cibo: dev’essere la farcitura.
È difficile capire se si tratti di una mania indotta, magari dagli inserzionisti pubblicitari, oppure se non rifletta semplicemente la mania degli italiani. Un giovane e brillante autore teatrale, Mattia Torre, suggerisce che la fissazione di non mangiare mal abbastanza derivi da un dopoguerra in fondo mai superato. Una fame atavica, di un Paese dove i dopoguerra sono sempre stati brevissimi periodi di quiete e sazietà fra una tragedia e l’altra.
Ma qui ormai siamo a sessant’anni dall’ultimo e l’ansia divorante si dovrebbe essere placata. Ma no, quando non si mangia, se ne parla, si evoca l’ultima abbuffata e ci si apparecchia alla prossima. Il discorso sul mangiare è per gli italiani l’equivalente della conversazione inglese sul tempo, un modo di non dirsi nulla con tante parole.
Ogni tanto alla radio, nelle rubriche di salute, affrontano la questione e la chiamano col nome appropriato: disturbo alimentare. Le statistiche dicono che siamo in cima alle classifiche di obesità infantile, anoressia e bulimia giovanile, o almeno secondi agli Stati Uniti, che non è una grande consolazione. Sarà che alla radio i cibi non si vedono e infatti gli spot alimentari sono pochi e i bambini non s’ingozzano come davanti al video. Non bastasse il resto, la tv fa ingrassare.

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