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Il Venerdi Di Repubblica

Il Made in Italy è servito. E da Torino va alla conquista del mondo ... Prossime tappe Tokyo, Londra e New York: cronaca dell’espansione del più grande supermercato enogastronomico del Paese, che sfida l’avanzata del cibo spazzatura. A colpi di prodotti di qualità e freschi di stagione. Offerti a costi sostenibili... Il nuovo Made in Italy cambia vocale ma non vocazione (la qualità), diventa Eataly (con quell’eat che non lascia spazio a dubbi: qui parliamo di cibo) e parte alla conquista del West (ma anche dell’Est).
Eataly, il più grande supermercato enogastronomico del mondo con otto ristoranti annessi - undici mila metri quadri spalmati sui tre piani dell’ex fabbrica torinese Carpano, dedicati a prodotti non industriali e ai freschi di stagione, ma a prezzi sostenibili - il 26 gennaio compie un anno. E da Torino dilaga, a macchia d’olio extravergine, spremitura a freddo, tra Tokyo e New York, dove entro l’autunno 2008 inaugurerà due doppioni in scala ridotta. Mille metri quadri: uno al Rockefeller Center, l’altro a Daikanyama, il quartiere più trendy della capitale nipponica. “Ma già a febbraio” dice il fondatore Oscar Farinetti, aprendo un Barolo Borgogno dell’82, azienda che, tra l’altro, sta comprando, “approdiamo in Giappone, nei megastore Mitsukoshi di Tokyo e Osaka, con duecento nostre specialità, dalla pasta di Gragnano alla Robiola di Roccaverano, presidio Slow Food”.
Tutto questo mentre si intensificano le trattative per aprire da Harrods’, Londra. Con Mohammed Al Fayed che, pare, scalpiti: lo scorso ottobre, quando i due ebbero il primo incontro, l’imprenditore egiziano avrebbe zittito un collaboratore titubante con un secco: “He takes customers. Definitely”. Questo ci porta clienti. Punto e basta.
Oscar Farinetti da Alba, 53 anni, una moglie e tre figli, è un imprenditore coi baffi, nel senso che li porta, e che aveva già fatto centro una volta, quando - da elettrodomesticaro di provincia, quella di Cuneo - trasformò il supermercato del padre, l’UniEuro (“Lui ha sempre avuto la fissa per l’Europa unita, è ancora un socialista nenniano”), nel primo gruppo italiano di elettrodomestici, venduto nel novembre 2002 agli inglesi della Dixons perché “l’elettronica di consumo non è più un’utopia” e a lui “piacciono le sfide”. La prossima?
“Convincere la gente che mangiar bene non è un lusso. Che riempirsi di Elio ed E211 non costa meno, però fa peggio. Eppure solo il 10 per cento degli italiani si nutre con cibi di qualità”. All’altro 90 per cento - incidentalmente, un bacino immenso di potenziale clientela - Farinetti va ripetendo che “quanto mettiamo dentro il nostro corpo è più importante di quanto mettiamo fuori”. Lui dà l’esempio mangiando sano e vestendosi da albero, pantaloni marroni e maglia verde (“mai scelto un abito, me li compra mia moglie”). Ma anche spiegando che “la gallina fa coccodè”, versione contadina di “la pubblicità è l’anima del commercio”.
“Lo sa perché non si mangiano uova di tacchina?” spiega. “Perché la tacchina sta zitta mentre la gallina comunica. Ecco che cosa deve fare un imprenditore”. Coccodè? “No, comunicare”. Così, in dodici mesi, Eataly è apparsa sui giornali con duecento pagine di pubblicità, tutte diverse, che stanno per finire in un volume - titolo ovviamente Coccodè - quasi pronto a sbarcare in libreria. Non che, per Farinetti, dire coccodè sia cosa nuova. Fu lui a inventarsi lo slogan UniEuro (“l’ottimismo è il profumo della vita”), quello che Tonino Guerra, mitico sceneggiatore di Fellini e Antonioni, ripeteva dagli schermi tivù.
“Volli lui perché è il più grande poeta italiano vivente. Prima di accettare, mi sbatté sei volte fuori dalla sua casa di Pennabilli, in Romagna. Ma io non mollai”. Le vendite salirono del venti per cento. Chi lo conosce conferma: Farinetti ha l’energia di un Obelix caduto da piccolo nella pozione magica. Dallo scorso ottobre ha inaugurato un corner Eataly a Milano, dentro Coin Casa, “in attesa del megastore meneghino gemello di quello torinese, previsto per il 2010”. Subito dopo New York e Tokyo aprirà invece a Bologna; poi Siena, Genova, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo. “Tutto entro il 2015. Mentre a New York, tra tre anni, raddoppio: ottomila metri al Meat Market di Manhattan”.
Mai stanco? Raccontano che, quando si inventò Eataly, Farinetti girò l’Italia per quattro anni ad acquisire aziende alimentari, quattordici in tutto: “Era necessario per garantire continuità nella qualità. Noi la pasta la essicchiamo per 48 ore, mica con processo industriale”. Per questo costa più cara: 2,5 euro a pacco contro l’euro del supermarket? “Sì. Il che fa 0,20 centesimi in più a piatto per avere il gusto del grano invece della plastica. È troppo?”.
Al traguardo del primo anno, la sfida pare vinta: il fatturato ha sfondato il muro dei trenta milioni di euro; dei due milioni e mezzo di visitatori, uno e mezzo ha comprato, partecipato a eventi didattici (“anche l’alimentazione va insegnata”) e mangiato nei dieci ristorantini monotematici. Mentre quello di lusso, Guido per Eataly, si è aggiudicato in pochi mesi la Stella Michelin. Caso rarissimo. Amico da sempre di Carlin Petrini, guru di Slow Food, che è anche consulente strategico di Eataly, Farinetti si definisce “mercan te virtuoso”, ma ammette tre vizi: le Nazionali Super (“sono trent’anni che mi nutro bene; senza fumo rischio di arrivare a 130, sa che noia”), il vino buono (“eppure sono magrissimo”, si schermisce lisciando il ventre ammorbidito da decenni di bontà) e la politica (“però ci giro alla larga, mai mescolare i piani”). Il suo cuore, comunque, batte a sinistra. Forse perché è figlio del comandante Paolo, capo partigiano della XXI Matteotti, quella di cui parla Fenoglio in I ventitrè giorni della città di Alba (Einaudi, pp. 336, euro 10,50). O forse, per dirla con Guccini, “perché sa la miseria”, nato in casa tra quattro sacchi di semola, da una famiglia ricca nemmeno un po’. “Detesto chi fa mostra del denaro” dice. Mai caduto in tentazione? “Una volta. Comprai una Porsche Cayenne che durò 24 ore. Mi schiantai in autostrada e ne uscii vivo per miracolo. Però questa non la scriva”.

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