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Il Venerdi' Di Repubblica

In vino libertas. È nato il bianco del carcere di Gorgona ... I detenuti dell’ isola-penitenziario hanno fatto rivivere un vigneto abbandonato. E con l’aiuto di Marchesi de’ Frescobaldi ora producono 2.500 bottiglie. Che da giugno arriveranno in enoteca... Galeotta fu la email e chi la scrisse. La passione tra una storica casa vinicola e i detenuti dell’isola di Gorgona nasce grazie a un messaggio di posta elettronica spedito dal carcere a diversi imprenditori ad agosto dello scorso anno: i reclusi hanno risistemato un vecchio vigneto e per la vendemmia servirebbe la collaborazione di un’azienda del settore. Di risposte ne arriva soltanto una, dalle cantine Marchesi de’ Frescobaldi. Ma è sufficiente. Tant’è che a giugno alcune enoteche selezionate potranno inserire nella loro carta un nuovo bianco, il Gorgona. La storia, ovviamente, ha un prima e, si spera, anche un dopo. Dal 1869 la più piccola delle sette sorelle dell’arcipelago toscano ospita una prigione a cielo aperto, l’unica rimasta in Italia, un po’ colonia penale e un po’ colonia agricola. Qui non possono sbarcare mafiosi, stupratori, pedofili o persone con problemi d alcol e droga. Ma i 47 detenuti hanno comunque commesso delitti gravi - omicidi e rapine - oppure sono recidivi con diverse condanne. Gli ultimi annidi galera li scontano a Gorgona a patto di aver avuto un percorso carcerario senza macchia, e dopo aver superato un colloquio attitudinale che verifica la voglia di darsi da fare e la capacità di saper stare in una casa circondariale diversa. Dove, pur non essendo asfissianti i controlli del corpo di guardia, le regole da rispettare sono rigide. L’isola è una sorta di attestato di buona condotta e il premio - più che il paesaggio sorprendente o la natura resa straripante dalla separazione dal resto del mondo imposta dal mare - è la possibilità di stare in cella solo la notte e per la conta pomeridiana. Per il resto del tempo ognuno ha il suo compito e lo gestisce in autonomia lavorando negli orti terrazzati, nell’uliveto, allevando mucche, capre e altri animali, producendo olio, formaggio, miele e gestendo un impianto di acquacoltura per la pesca delle orate. È un microcosmo quasi autosufficiente che dà da mangiare alla popolazione di Gorgona (meno di 150 persone compresi agenti, educatori e personale amministrativo) e insegna un mestiere per dopo, un lavoro da spendere una volta liberi. La differenza con un penitenziario tradizionale la spiega Umberto, 16 anni di reclusione alle spalle: “Vengo da un carcere dove stai in cella 22 ore su 24 e ovunque vai, ai colloqui come in biblioteca, c’è sempre qualcuno che ti accompagna. Qui è diverso. È come essere libero”. Si tratta di un modello che funziona, ma che rischia di essere azzerato dalla crisi. La spending review, infatti, ha ridotto ai minimi termini i fondi statali che tino al 2011 consentivano di mantenere in piedi le attività agroalimentari. Peraltro un paradosso burocratico consente di cedere i prodotti all’esterno, ma non di incassare eventuali guadagni così da garantire una minima indipendenza economica per il proseguimento dell’attività lavorativa. Maria Grazia Giampiccolo, dal 2006 direttrice del carcere di Volterra e dal 2011 anche di quello Gorgona, però non si dà per vinta. Insieme agli educatori scrive un progetto per realizzare corsi di formazione nella filiera agricola e riesce fortunosamente a farselo finanziare con 520 mila euro dalla Cassa della ammende, un istituto del ministero di Giustizia nato col compito di sostenere i programmi di riabilitazione e reinserimento dei detenuti che però, in tempi di vacche magre, è stato utilizzato quasi esclusivamente per pagare ampliamenti delle strutture di detenzione. Tuttavia questi soldi bastano appena per un anno. A questo punto entra in scena Salvatore, carcerato siciliano. Appena mette piede a Gorgona vede un vigneto abbandonato, parla con la direttrice, spiega che lui con le viti ci sa fare. Da quello che era diventato un ammasso di rovi, con attrezzi di fortuna, tira fuori un ettaro ordinatissimo di filari dove lascia solo i due vitigni più pregiati, ansonica e vermentino, sradicando il resto. Quando s’avvicina la vendemmia parte la mail galeotta. “Molti l’avranno cesti- nata senza nemmeno leggerla” dice Lamberto Frescobaldi, vicepresidente del l’azienda di famiglia. “lo invece mi sono detto che dovevo rendermi utile”. La Marchesi de’ Frescobaldi spedisce subito botti, attrezzi da lavoro, prodotti per la sanificazione della cantina, poi manda sul posto enologi e agronomi a spiegare come migliorare la qualità del prodotto, e tra poco arriverà sull’isola pure un trattore che l’imprenditore è riuscito a farsi prestare da un’altra azienda, la Argotractors. Solo a gennaio 2013, mesi dopo, viene siglato un accordo ufficiale con l’amministrazione carceraria che, per un triennio, impegna Frescobaldi a fornire materiali da lavoro in cambio della possibilità di commercializzare le 2.500 bottiglie di Gorgona prodotte. “Non è un vino da fighetti” aggiunge il vice presidente “è un bianco deciso, che ha un sapore che colpisce e una storia da raccontare”.
Una storia che tutti riportano senza troppi fronzoli. La direttrice, per prima, liquida la vicenda dicendo che sta facendo solo il suo dovere: “Il dettato costituzionale” spiega Giampiccolo “ci impone di dedicarci alla rieducazione del condannato. Trovare un contatto col fuori, con imprese come Frescobaldi che si impegnano ad assumere le persone che hanno pagato il loro debito, è il nostro compito più importante”. Usa toni pacati anche Antonio, che resta coi piedi per terra. “Nei miei tre anni e mezzo di isola ho imparato un mestiere, ma non penso al futuro. Seminai, avrei dovuto pensarci prima. Se l’avessi fatto non sarei qui”. Poi però, solo per un momento, si lascia andare: “Certo, sono orgoglioso. Qualcuno, là fuori, comprerà una cosa che ho fatto io, detenuto del carcere di Gorgona”.

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