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Io Donna / Corriere Della Sera

La vita oltre le sbarre ... I detenuti del carcere di Alba, nel cuore delle Langhe, coltivano una vigna. Dal loro lavoro escono 1500 bottiglie all’anno di un “rosso” apprezzato e venduto anche all’estero. A Io donna raccontano come nasce un vino che è anche una promessa. A partire dall’etichetta: Valelapena... Grappoli maturi nelle mani di Roberto (il nome è sillabato nel tatuaggio sulle dita). Grappoli dentro gli scarponi davanti alle inferriate della cella, dove spuntano mani anonime. Un tipo di mezz’età, con la Tshirt “Colorado 72”, trasporta cassette, la guardia sorveglia, il volontario assiste. Scatti d’autore in un pomeriggio d’autunno in un luogo speciale. Dove cresce la vigna che mai ti aspetteresti di trovare. E poi il vino, la bottiglia con l’etichetta che incuriosisce. Il disegno e il nome: Valelapena. Nel suo piccolo è già un successo. Il rosso è buono, profumato e soprattutto rappresenta il lavoro e la speranza di un gruppo di detenuti del carcere di Alba: in un fazzoletto di terra - circa un ettaro - circondato dalle alte mura, ecco i filari allineati, i pampini che dal verde tendono all’oro, prima di seccare e rinascere a primavera. La vita della vite s’intreccia con quella dei reclusi. La vendemmia è conclusa, i grappoli scuri diventeranno vino. Un rosso da tavola, non pregiato ma schietto. Benvenuti nella tenuta del carcerato. Parla Giuseppina Piscioneri, direttore della casa circondariale dal 2006: “La produzione è limitata ma le bottiglie hanno mercato. Durante le manifestazioni enogastronomiche locali sono in mostra. In questi giorni si trovano sui banchi della Fiera del tartufo (fino al 17 novembre, ndr). I detenuti con permesso di uscita e gli assistenti presentano il vino al pubblico. È apprezzato e venduto, glielo assicuro. Dare un senso alla pena, favorire la partecipazione di persone private della libertà a esperienze concrete come coltivare e produrre è per me un punto d’orgoglio”. Di più: in questo caso, la coltura giusta nel posto giusto diventa valore aggiunto. Siamo nei capoluogo delle Langhe, terra di vigne importanti. Sicché, uscito in libertà, qualche ex detenuto-viticoltore potrebbe trovare lavoro in una delle numerose aziende del distretto piemontese. L’Obiettivo Filare - così si chiama il progetto - ha messo radici in pochi anni, con la collaborazione di Syngenta, l’agrosocietà che lo sostiene fornendo mezzi e risorse per la coltivazione del vigneto, l’Istituto enologico Umberto I di Alba che provvede a vinificare le uve, la Casa di carità Arti e mestieri, l’amministrazione penitenziaria, gli enti locali. “Una équipe del carcere ha individuato i soggetti da coinvolgere che hanno seguito un corso di formazione” afferma il direttore “e quindi dalla teoria sono passati alla pratica”. Si tratta di una ventina di reclusi su 180, di età compresa tra i 20 e i 35 anni (più un paio di cinquantenni), extracomunitari e italiani. Qualcuno è in attesa di giudizio, altri scontano pene definitive per reati non particolarmente gravi. “Lavoriamo sodo, ma il contatto diretto con la natura è impagabile e la soddisfazione per i risultati ci conforta” confidano a Giovanni Bertello, l’agrotecnico che per primo ha creduto nel progetto, dopo essere entrato nel carcere di Alba come insegnante del corso per operatore agricolo. “L’idea della vigna nacque casualmente” racconta “quando vidi tra le mura carcerarie un’area sporca, piena di erbacce. Degradata. Pensai che andava ripulita; poi è scattata la molla di farla fruttare. Ha funzionato. La vigna cresce rigogliosa”. Le immagini esclusive per Io donna sono di Armando Rotoletti. E il primo fotografo cui è stata concessa l’opportunità di entrare nella Casa circondariale di Alba per documentare la vendemmia: i detenuti al lavoro, le sbarre delle celle in cui sono rinchiusi. “Questa esperienza fa parte anche di un mio progetto” dice Rotoletti. “Ho incominciato a documentare il paesaggio e i volti dei distretti agroalimentari. Penso che le (belle) immagini aiutino a tutelare e valorizzare i nostri territori, che possono diventare il motore di una nuova ripresa sostenibile. Nel caso del carcere di Alba, il valore sociale è un passo oltre”. Le uve curate dai reclusi sono Nebbiolo,Barbera, Dolcetto, Cortese. “Tipici vitigni del Piemonte” nota Bertello. “Il vino è di buona qualità. Mercato piccolo, ma solido. La produzione media è 1400-1500 bottiglie annue, vendute a euro, anche all’estero. In un carcere di Londra dove funziona un ristorante aperto al pubblico il nostro vino primeggia in carta”. Il nome è nato per caso durante la presentazione del progetto. “Ne vale la pena” disse qualcuno. E titolo fu. Il disegno è il risultato di un concorso fra i detenuti. Per motivi di sicurezza, però, loro non possono bere vino. Neppure il Valelapena. Con qualche strappo alla regola. “Durante il rinfresco di fine corso, un bicchiere non si nega a nessuno” conclude il direttore. “E ormai nel gruppo c’è chi sa illustrare le caratteristiche del vino”. Sommelier prossimo venturo?

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