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Io Donna

La mia vite è meravigliosa ... Ha un messaggio da mettere nella bottiglia, diretto all’Europa: giù le mani dai vini italiani di qualità. Ma nella piccola repubblica toscana di vignaioli visionari, la contessa Ginevra difende anche un proprio gusto anticonformista. Coltivato con l’andare a letto presto... Diciassettemila ettari d’origine non controllata, nel senso che non siamo nella Toscana doc Bertolucci&Vino, ma è quel mondo a parte e appartato della costa toscana, quasi un’enclave metageografica che va dalle valli preappenniniche dell’alta Garfagnana giù fino ai girasoli e le lavande della bassa Maremma, dai marmi di Carrara alle mollezze di Capalbio, terra difficile da impacchettare tutta insieme dai travelwriters americani, non omologabile al classico bello per ricchi, perché può capitarti, tra un incanto e l’altro, d’imbatterti anche in cose che sporcano i paesaggi, un distretto industriale, una fabbrica di piastrelle, la villetta arancione acrilico. “Un’idea” quella della Costa. Così la definisce il marchese Nicolò Incisa della Rocchetta, il padre del mitico Sassicaia e presidente onorario di questa repubblica di vignaioli visionari che si chiama Grandi cru della Costa toscana, 76 produttori, sei milioni e mezzo di bottiglie eccellenti ogni anno, fatturato 45 milioni di euro, l’80 per cento della produzione distribuita all’estero.
“Cosa ci accomuna? L’insofferenza ai parvenue che cavalcano la moda del vino e del vino standard, quello che insegue i gusti dei nuovi mercati” spiega il marchese. “Ma vogliamo anche distinguerci dalla Toscana-Toscana, perché noi siamo altra cosa, respiriamo aria di mare, siamo gente che rompe le regole”.
Proprio in questi giorni l’Unione europea si sta dividendo sulla riforma del mercato del vino: pressata dalla grande industria, vuole fronteggiare la concorrenza dei grandi esportatori australiani, cileni o sudafricani che invadono le economie emergenti con un vino “standard” a basso costo. Bruxelles vorrebbe liberalizzare le norme di un settore che, per esempio in Italia, è vincente perché controlla la qualità e nella bottiglia ci mette non solo l’uva, ma anche l’anima dei luoghi e delle persone.
“Il ministro dell’Agricoltura, Paolo De Castro, su questo fronte è debole, quando noi siamo i primi esportatori di vino al mondo, con nove miliardi di fatturato l’anno. Non ci resta che sperare nei francesi” dice la contessa Ginevra Pesciolini Venerosi nella sua Tenuta di Ghizzano, borgo medievale sulle colline pisane, qui sulla Costa, dove il mare è l’ispiratore di vini dal carattere morbido ed elegante, come il pluripremiato Veneroso della pisana Ginevra: insieme con il sole, il Tirreno crea condizioni uniche di inverni miti e crescite precoci. Questa entità è stata per anni trascurata dai soloni dell’enologia, ma in silenzio è diventata la Bordeaux italiana, roccaforte di qualità “impegnata” che, per le sue battaglie sul fronte europeo proprio al fianco dei vigneron francesi, viene associata al fenomeno Slow Food. In principio furono i grandi vini patrizi, il Sassicaia di Bolgheri, appunto, quindi l’Ornellaia, l’altro carducciano Grattamacco; poi, negli ultimi dieci anni, tra le province di Lucca, Pisa, Livorno, Massa e Grosseto (qui si è passati da quattro a 150 aziende) sono emersi grandi e piccoli viticoltori che si contendono gli award internazionali. Per Francesco Mazzei della Tenuta Belguardo, la diversità di uve è la forza che unisce queste cantine: “Qui non c’è lo strapotere del solo Sangiovese, come accade nella Toscana interna, ma si varia dal Cabernet al Merlot, dal Syrah all’Alicante, dal Ciliegiolo al Vermentino”. Microcosmo di terreni disomogenei ma idealmente compatibili.
Ciò che fa notizia è che siamo nei luoghi di leggendarie divisioni, del “meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”, nella patria delle contrade l’una contro l’altra armate, dove, come raccontava lndro Montanelli riguardo alla sua Fucecchio, ci si distingue tra “insuiesi” e “ingiuiesi”, tra coloro che abitano dabbasso e quelli sopra la collina: ebbene, nel nome dell’uva e di una non conformista idea di terra, tutti a pigiare nello stesso lino. Il merito, secondo il marchese Incisa della Rocchetta, è soprattutto di Ginevra Pesciolini Venerosi, presidente dei Grandi cru, che ha saputo tenere insieme una generazione di vignaioli quarantenni, esaltandone insieme lo spirito localistico e quello neocomunitario, portandoli a fare fronte comune con i Vignerons d’Europe. “Lo scorso aprile” spiega Ginevra a Io donna proprio mentre a Bruxelles va in scena la guerra del vino “ci siamo riuniti a Montpellier per difenderci da un “McVino” dal gusto globale di vaniglia, quel che piace all’americano medio e ai mercati emergenti che non vanno oltre la distinzione secco/dolce. Nel bicchiere i nostri vini devono continuare a raccontare la terra di provenienza, la pazienza dell’affinamento, il colpo di genio che ti sorprende e ti emoziona. La quantità a basso costo per noi non è un obiettivo, ma una condanna a morte”.
Ginevra è rinata grazie a questa idea di vino, la sua è anche una questione esistenziale. Otto anni fa ha girato le spalle a Firenze e ai giri del bel mondo, ha preso in mano il maniero di famiglia e i 350 ettari di terra, diciotto a vigneto e il resto ulivi, boschi, cereali, riserva di caccia. Pochi amici, tutti del contado, compagni di vite che sono poi quelli che le hanno insegnato i fondamentali; a volte un cinema a Piccioli e tanti viaggi a testimoniare come i suoi vini non poteva che farli lei, perché le assomigliano in tutto, dal portamento al carattere, all’ironia.
Non è una baccante, in inverno va a letto alle dieci di sera, “le mie giornate finiscono con il buio” racconta; la contessa prende le distanze da quelle aristocratiche che hanno trovato nel fare vino un modo mondanamente corretto di far festa: “Gente che usa ancora la terra come sollazzo” dice. “La mia missione è di custodire ciò che ho ricevuto. Per una donna è rischioso, la terra ti prende totalmente, non la puoi frequentare per finta, se ci credi diventi un essere autarchico anche nei sentimenti, una cosa totalizzante, che fa paura agli uomini”. Bruxelles e De Castro sono avvisati.

Quanto zucchero?...
L’uso dello zucchero per aumentare la gradazione alcolica è uno degli argomenti dello scontro europeo in corso sulla riforma del mercato del vino per rendere più competitivo il settore nei 27 paesi membri davanti all’avanzata delle importazione dal Nuovo mondo: California, Australia, Argentina, Cile, Sudafrica. Germania e altri paesi del Centro e del Nord Europa ne rivendicano la necessità per ragioni climatiche. Ma il tema più spinoso per i grandi nomi del vino italiano è quello dell’etichettatura: la semplificazione delle etichette permetterebbe l’uso non specificato dei trucioli e ai comuni vini da tavola quello di indicare uvaggio e annata. In Italia i disciplinari di qualità sono tra i più severi. Se si indicano vitigno e annata dove non c’è controllo, si disperde un patrimonio di credibilità. Ciò che si teme è di veder comparire Pinot, Merlot, Nebbiolo, Cabernet assemblati con uve provenienti dai più diversi territori, compresi i più economici mosti della Romania. Quel che accade già per l’olio, che magari è imbottigliato in Toscana, ma proviene da tutto il Mediterraneo.

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