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L'espresso

Aiuto, è finita la sbronza. Il duopolio franco-italiano è in allarme. La concorrenza di australiani & C. è sempre più feroce. E i conti non tornano ... Sull’etichetta c’è scritto Yellow Tail, coda gialla. E’ un vino che nasce da uve australiane. Nel 2001 gli americani se ne sono scolate un milione e 800 mila bottiglie. Devono averlo trovato proprio buono. Perché l’anno scorso ne hanno comprato dieci volte di più. E se il consumo regge ai livelli di oggi, il 2003 si chiuderà a quota 60 milioni. Come dire che in soli 24 mesi le vendite sono cresciute di oltre il 3 mila per cento.
Il Yellow Tail è la bestia nera di Rolando Chiossi, presidente e amministratore delegato del Giv, un consorzio di cooperative che è al primo posto sul mercato italiano del vino con circa 70 milioni di bottiglie l’anno (dal laziale Fontana Candida al Chianti Machiavelli) e un giro d’affari consolidato di 250 milioni di euro. Oscar dell’export nazionale (il 73% del prodotto viene spedito oltre confine), il Gruppo italiano vini marcia con il freno a mano tirato. Dopo dieci anni di crescita ininterrotta, nel migliore dei casi il 2003 si chiuderà a bilancio invariato: le vendite all’estero denunciano un calo medio del 6%, con punte che arrivano a –12% sul mercato britannico. Chiossi è in buona compagnia. La Ruffino, quella del Chianti, arretra sul mercato americano. La Mastroberardino, uno dei più grandi produttori di Greco di Tufo, Falanghina e Fiano di Avellino, fa fatica a confermare i risultati dello scorso anno. La Felluga, che nel 2002 era cresciuta del 16%, è ferma al palo. Così come la Marchesi Antinori, maison fiorentina di etichette di gran rango tipo Tignanello e Solaia. L’industria italiana del vino, un business da 9 miliardi di euro, comincia insomma ad avere il fiato corto.
Il fatto è che il mercato italiano, dopo aver galoppato per sei anni, si è sgonfiato. “E’ successo un po’ come per Internet, dove d’un colpo è arrivato lo sboom”, sintetizza Fabio Durante, amministratore delegato della Santa Margherita (famiglia Marzotto), 14 milioni di bottiglie dal Pinot grigio al Merlot nella zona di Portogruaro. “Non esageriamo”, corregge il tiro Piero Antinori: “Diciamo che è finita la sbronza”. Il guaio è che se i consumi domestici non vanno, lo scaccchiere internazionale vede i produttori storici europei arroccati in difesa. I grandi mercati battono la fiacca. “Certamente è debole quello americano, soprattutto è in crisi quello tedesco”, racconta Alberto Tasca d’Almerita, signore del Regaleali. E la concorrenza s’è fatta feroce. Ventanni fa, il continente capitanato da Italia e Francia (la prima leader dell’export in quantità, la seconda in valore) faceva il 75% dell’interscambio mondiale. Ora è sceso al 70. Nello stesso arco di tempo, australiani, neozelandesi, cileni e californiani sono passati dal 2 al 20 per cento. I produttori di Sydney e dintorni hanno strappato alla francia il primo posto sul mercato britannico e si preparano a fare altrettanto con l’Italia negli Stati Uniti. “Tra i primi 20 marchi al mondo per diffusione solo quattro sono europei”, ammette sconsolato Davide Gaeta, consigliere delegato dell’Unione italiana vini della Confcommercio. Non basta. I viticoltori del Nuovo Mondo, come li chiamano con un pizzico si snobismo italiani e francesi, minacciano di portare la guerra fin dentro i nostri confini nazionali. Intendiamoci: il mercato è saldamente presidiato. Le tabelline che fanno bella mostra sul tavolo di Chiossi dicono che il consumo di vino straniero in Italia non va oltre l’1%, se si escludono dal conto lo champagne e il Beaujolais nouveau. E però le etichette del Californiano Gallo, massimo produttore mondiale con 700 milioni di bottiglie l’anno, cominciano a fare capolino sempre più spesso sugli scaffali dei supermercati romani e milanesi. E la stessa presenza diretta degli stranieri sul nostro territorio s’è fatta più consistente. Proprio Gallo ha fatto una joint-venture con la Cavit (quella del Pinot grigio), che è la seconda zienda vinicola italiana. Mondavi, insieme all’alleato Frescobaldi, ha fatto un sol boccone dell’Ornellaia, incoronato vino dell’anno 2001 da “Wine spectator”, bibbia mondiale dei bevitori. E Villa Banfi, griffe storica del Brunello di Montalcino, è da anni nelle mani della famiglia Mariani, che sarà pure di origini italiane, ma è americana a tutti gli effetti. Tra export e presenza diretta, gli stranieri sono comunque destinati a guadagnare terreno sul nostro mercato. Non foss’altro perché i consumatori sono diventati più curiosi. Lo dimostra il fatto che quest’Anno Antinori venderà in Italia 100 mila bottiglie di un vino che produce in Ungheria con l’impronunciabile etichetta Baatapati. “Me lo avessero detto cinque anni fa, non ci avrei creduto”, ammette il presidente della cantina fiorentina.
Le griffe del vino italiano marciano senza troppi patemi. Nessuno intacca le posizioni di Brunelli e Baroli. Ma per tutti gli altri far quadrare i conti è un bel rompicapo. Tenere testa ad australiani & C. è davvero un’impresa. Intanto c’è un problema di massa d’urto. In Australia ci sono tre giganti che insieme fanno 80% della produzione nazionale. La dimensione media di un vigneto è di 111 ettari . In Italia ci sono 770 mila aziende che, secondo i calcoli del direttore della Federvini di Confindustria, Federico Castellucci (fresco di nomina al vertice dell’Office International de la Vigne et du Vin), contano in media su poco più di mezzo ettaro di terra: una superficie che ormai nelle aree del Brunello o del Barolo può valere 250 mila euro. I primi dieci produttori italiani fanno meno del 10% del mercato.
“Le aziende italiane, poi, lavorano in una giungla di lacci e lacciuoli”, si lamenta Piero Mastroberardino, presidente della Federvini, che ha contato oltre 2 mila pagine di norme italiane e comunitarie spesso in contraddizione tra loro. Ezio Rivella, presidente dell’Uiv e piccolo produttore di Chianti Classico, gli dà ragione: “In Italia ci sono 17 diversi enti di controllo ed ogni cantina deve tenere sette distinti registri”. Se ai fattori strutturali si sommano quelli congiunturali (la cattiva vendemmia dello scorso anno e la rivalutazione dell’euro sul dollaro) si capisce come reggere la concorrenza sia tutt’altro che semplice. “Con i terreni a prezzo di saldo, un’elevata meccanizzazione, l’assenza di burocrazia e condizioni ambientali che consentono raccolti anche doppi a parità di superfici coltivate, alla fine”, sostiene Antinori, “un produttore australiano sopporta costi inferiore del 25-30% rispetto ai nostri”.
Organizzare le difese non è facile. Stefano Cinelli Colombini, che riesce a spedire il suo Brunello dall’Islanda a Singapore, ha scelto la strada delle alleanze: con i piemontesi di Fontanafredda e i siciliani di Donnafugata per vendere sul mercato americano; con i veronesi Masi e i siciliani Planeta per la piazza orientale. Altri come Campari o Lungarotti tentano la via della crescita a colpi di acquisizioni.
Ma la strada più battuta è la riscoperta del Sud. “Questa è la nostra Australia, con i terreni ancora a prezzi abbordabili e un ottimo clima”, dice Chiossi. Il Giv ha investito 30 milioni di euro per rilevare la Rapitalà in Sicilia e avviare produzioni in Basilicata e Salento (Aglianico). Per ora fa 3 milioni di bottiglie, ma conta di raddoppiarle in un triennio. Stesso obiettivo si è dato Cinelli Colombini, che quest’anno produrrà nel foggiano (con alleati locali) 80 mila bottiglie di Daunia. Antinori ha fatto shopping a Bari e Brindisi. Zonin in Puglia e Sicilia. La trentina Mezzocorona anche lei in Sicilia, proprio come la Santa Margherita e l’Ilva di Saronno, che si è aggiudicata il Corvo di Salaparuta. La sorpresa è che funziona davvero. La curva del fatturato consolidato di Antinori resta desolatamente piatta. Le aziende pugliesi del gruppo registrano invece un balzo in avanti del 40 per cento.

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