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L'espresso

Speciali Vini - Figli di un Doc minore: i grandi vini italiani costano troppo? I consumatori scoprono le piccole etichette. E gli emergenti del Nuovo mondo … “Inutile giocare con le parole: la filiera del vino italiano rivela un calo della capacità competitiva. Soprattutto rispetto alla crescita decisa dei Paesi del cosiddetto Nuovo mondo”. Parla chiaro e tondo Piero Mastroberardino, presidente di Federvini, agli associati riuniti nell’annuale assemblea. I dati confermano: nel 2003 le esportazioni italiane sono calate del 15,8 per cento rispetto al 2002, i vini di qualità del 12,1 per cento, quelli da tavola del 21,1 per cento. Esportazioni in forte calo (meno 21 per cento) verso paesi dell’Unione europea, Francia e Germania in testa, verso il Giappone e la Svizzera: appena positive verso il Nord America. “Che l’aria sia cambiata nel mondo del vino se ne sono accorti tutti. Produttori, commercianti, ristoratori, baristi. E i consumatori: che si sono ribellati, prima rifiutando le bottiglie dai prezzi giudicati eccessivi, poi dimostrando curiosità per i vini italiani e stranieri a prezzo contenuto, ma di buona qualità. Da un lato la recessione, che porta a tagliare i consumi di beni considerati voluttuari, dall’altro la crescita della cultura del vino, hanno frenato la corsa verso le etichette più prestigiose e più care. E si sta radicando la convinzione che, fra i produttori, “piccolo” e prezioso resta bello, ma anche “grande” può essere buono e conveniente. Che qualcuno abbia esagerato nel tirare la corda di prezzi e ricarichi, dalla cantina al ristorante, è riconosciuto. E chi opera sul mercato non può non tenere conto, operando sia sulla tipologia e sulle caratteristiche dei vini, sia sul marketing e sui prezzi”.

Gianni Zonin, fra i più grandi produttori italiani, 80 milioni di euro di fatturato, non esita a indicare fra i primi responsabili del caro etichette proprio i produttori, che si sono fatti prendere da un’euforia che si è trasmessa a distributori, enoteche e ristoranti, dando vita a rincari abnormi. “Quattro o cinque anni del boom dei vini di qualità hanno generato una gigantesca speculazione, che si è poi scontrata con la frenata dei consumi e la lievitazione delle scorte, con il caro-euro che ha pesato sull’export e con una certa diffidenza dei consumatori, più maturi, verso i vini a tiratura limitata, d’immagine, costruiti spesso dalla critica e proposti a prezzi senza rapporto con la realtà”. Concorda Enrico Viglierchio, di Banfi, la più grossa realtà di Montalcino, 60 milioni di fatturato. Pur reduce da un più che soddisfacente 2003, sottolinea la necessità di stringere i rapporti all’interno della filiera e di essere molto attenti all’evoluzione del mercato, concentrando l’impegno sulla fascia media: prodotti di qualità a prezzi ragionevoli. La novità sul mercato è l’invasione dei vini del Nuovo Mondo, tecnicamente ineccepibili, piuttosto impersonali ma di ottima bevibilità per il consumatore normale. Facili e ricnoscibili, perché ottenuti da vitigni internazionali come lo chardonnay, il cabernet, il sauvignon, il merlot, e soprattutto proposti a prezzi incredibilmente bassi, certo non superiori a quelli di men che mediocri vini da tavola italiani. Arrivano da Australia (già leader di mercato in Inghilterra), Nuova Zelanda, Cile, Sud Africa, Argentina e anche dai paesi dell’Est europeo.

Questa concorrenza è il problema vero dei produttori italiani. I più attrezzati non si sono fatti sorprendere e hanno diversificato prodotti e mercati. “Anche se sarebbe un grave errore lanciarci tutti in una rincorsa ai ribassi generalizzati: in una guerra incentrata sui prezzi l’Italia e l’Europa sarebbero perdenti. La strada è invece investire su qualità, tipicità e terroir. Alleanze fra produttori”, sottolinea Francesco Mazzei, artefice con il fratello Filippo dell’eccezionale affermazione negli ultimi anni del Castello di Fonterutoli, in Chianti. “E’ il made in Italy che deve fare la differenza: la nostra qualità anche nei vini di largo consumo deve essere espressione dei nostri vitigni e territori”, dice Gianni Martini, protagonista di una delle più significative case history degli ultimi anni del vino italiano: la Fratelli Martini (nulla a che vedere con la Martini e Rossi) con sede a Cossano Belbo e con diversi marchi, varie tipologie di vino fra cui 80 a Doc di varie regioni, 90 milioni di fatturato nel 2003, è fra le aziende top in Italia, con etichette di eccellenza nel Barolo, nelle Langhe, nel Gavi del cui Consorzio Gianni Martini è presidente. “Nervi saldi, professionalità, esperienza costruita anche sugli errori del passato (qualcosa anche la nostra azienda ha da rimproverarsi): la sfida si vince. I produttori “grandi firme, piccole quantità, alti prezzi” avranno sempre spazio nelle nicchie di mercato. Le loro bottiglie, pur carissime, se davvero di qualità troveranno sempre acquirenti; ma sarebbe bene che si smettesse di guardare con sufficienza a chi produce e fattura decine e decine di milioni di euro, e si desse atto che produciamo ottimi vini per tutti i giorni e sappiamo fare anche vini di qualità. Venduti a prezzi comunque ragionevoli”.

Dall’altra estremità d’Italia gli fa eco Carlo Casavecchia, da un biennio impegnato, con positivi riscontri, a ridare smalto ai tre marchi storici del vino siciliano: Duca di Salaparuta, Corvo e Florio. “Esprimere le straordinarie potenzialità dei vitigni autoctoni siciliani, come il nero d’Avola, il grillo, l’insolia, il cattaratto, creando vini originali, buoni e con prezzi accessibili, cioè nella fascia fra i 5 e gli 8 euro: non può che essere questa la nostra risposta all’invasione dei vini internazionali senza storia né anima”.
Le tendenze Chi beve che cosa, nel frattempo, e dove? E’ la domanda che si pongono produttori, esperti di marketing, ditributori. Naturalmente non esiste una risposta univoca. Alcune tendenze sono ben delineate. Il vino rosso resta di gran lunga preferito (per le sue caratteristiche organolettiche e per i benefici indotti sulla salute), con maggior disponibilità a riconoscere prezzi elevati nei paesi europei di solida tradizione. Grande interesse, comunque, per rossi e bianchi del Nuovo Mondo, soprattutto fra i giovani e le donne, i “nuovi bevitori”.

Ovunque c’è marcata attenzione ai prezzi e ricerca dei più convenienti rapporti qualità-prezzo: cosa che evidentemente penalizza le vendite dei vini più raffinati e preziosi, riservati, al di là del prezzo, ai palati più esperti. La proliferazione di luoghi e occasioni per bere vino sta alzando la quota dei consumi fuori casa rispetto a quelli domestici. Non tanto al ristorante (dove spesso è decisivo l’effetto deterrente dei ricarichi), quanto nelle enoteche con degustazione e nei wine bar, il consumo del vino cresce ovunque: è innegabile la funzione socializzante che esercita. Di qui la pratica sempre più diffusa di proporre il vino a bicchiere e non solo a bottiglia, di proporre le mezze bottiglie per consentire di provare più vini, di promuovere degustazioni e confronti basati più sulla ricerca della piacevolezza che sull’analisi professionale, di offrire stuzzichini o piatti come abbinamento ideali di vini. Nascono bar dedicati ai giovani, dove l’educazione al gusto fidelizza il cliente e lo accompagna alla scoperta di vini sempre più importanti e più costosi. Fondamentale, per questo, l’impiego di macchine sofisticate che assicurano la perfetta conservazione del vino anche vari giorni dopo l’apertura.

Se il vino sta diventando status symbol, il merito maggiore va proprio al fenomeno in crescita del wine bar, che rispetto all’enoteca tradizionale è più friendly, meno formale e incontra quindi il gusto di giovani e neofiti sui 23-25 anni, di entrambi i sessi. Purchè sia gestito con intelligenza. Perché il vino di una buona bottiglia che sia acquistata dal bar a 8 euro, e dalla quale vengono ricavati sette otto bicchieri, non può essere rivenduto a più di 3 euro a bicchiere: altrimenti quello stesso vino si compera al supermercato e si beve a casa propria.

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