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L'espresso

Alla salute di Alamanno. Nome: Enoteca d’Italia. Scopo: promuovere prodotti agricoli tricolore. Risultato: 11 avvisi di garanzia. E un ministro in difficoltà. Tra i reati si ipotizza l’associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato ... Non decidevo io consulenze e sponsorizzazioni per la promozione del vino italiano nel mondo. L’input era sempre politico. Ovvero del ministro Gianni Alemanno e, soprattutto, del sottosegretario Teresio Delfino. Parole di Giuseppe Ambrosio, uno dei due capi Dipartimento del Ministero delle Politiche Agricole, sentito in gran segreto a Roma, nel primo pomeriggio di giovedì 16 giugno dal procuratore capo di Asti, Sebastiano Corbello. Che pochi minuti dopo, nella stessa caserma della Guardia di Finanza a due passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, ha ascoltato anche Alemanno per ricostruire la breve e dispendiosa avventura dell’Enoteca d’Italia. Un carrozzone messo su nel 2003 e che, secondo la Procura di Asti, avrebbe bruciato qualche milione di euro in meno di due anni.
Lo scandalo è esploso ai primi di aprile con perquisizioni e l’invio di 11 avvisi di garanzia nei quali si ipotizzano l’associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata (tentata e realizzata) in danno dello Stato e false fatturazioni. Tra gli indagati furono alcuni dirigenti del ministero e lo stesso Delfino, sottosegretario dell’Udc con delega proprio al settore viti-vinicolo. Mentre le posizioni di Alemanno e del suo braccia Ambrosio, sentiti come persone informate dei fatti, sono ancora “al vaglio degl’inquirenti”. Il personaggio chiave è Pier Domenico Garrone, un cinquantenne di Acqui Terme che di mestiere fa il comunicatore d’impresa e ha saputo coniugare l’amore per il vino con la passione per la politica. Forzista della prima ora, nel 1995 ha aiutato Enzo Ghigo a conquistare la presidenza del Piemonte. Ghigo lo ricompensò con una maxi-consulenza per la comunicazione che all’epoca fece scandalo (con straccio di interrogazioni consiliari ed esposti alla Corte dei Conti) e se lo tenne come braccio destro per altri quattro anni. Nel 1999, il rapporto di fiducia tra i due s’interruppe bruscamente e Garrone preferì fare il presidente dell’Enoteca di Acqui. Titolo che poco dopo gli valse la nomina alla guida della neonata enoteca regionale. A cavallo delle lezioni del 2001, dopo una breve esperienza manageriale in H3g come responsabile dei rapporti con gli enti locali, Garrone si avvicina all’Udc, che nel basso Piemonte significa Teresio Delfino. Delfino viene eletto con un sacco di voti a Roma al ministero. Per Garrone è una pacchia. Il capo a due anni, il ministero dà vita ad una struttura che sembra pensata su misura per lui. Nella primavera del 2003, l’Ismea, braccio operativo del ministero, partorisce una srl di nome Buonitalia e le affida tutta l’attività di promozione dei prodotti agricoli tricolore. Buonitalia, a sua volta, costituisce l’Enoteca d’Italia. A presiedere Buonitalia viene chiamato un sociologo di nome Fabrizio Mottironi, amico di vecchia data di Alemanno e suo prezioso ambasciatore presso la comunità buddista italiana. Mottironi, sempre nel 2003, diventa anche vice-presidente dell’Ismea. Mentre Enoteca d’Italia viene affidata a Garrone, che come braccio destro si porta dal Piemonte Pierpaolo Gherone, commercialista artigiano che nel 2001 ha tentato senza fortuna la strada di Montecitorio con l’Udc. L’Enoteca parte sparata con 20 milioni di finanziamenti pubblici, divisa a metà tra il ministero e le regioni interessate (Piemonte, Lombardia, Sicilia, Veneto e Lazio, all’epoca tutte in mano al centrodestra). Vengono finanziati convegni, riviste patinate, fiere di settore, missioni in Italia e all’estero. Tra queste ultime, indimenticabile quella ad Atene per le Olimpiadi me in Portogallo per gli Europei di calcio. Le casse però si svuotano rapidamente e già alla fine del 2004 il ministero comincia a bocciare tutti i progetti di Garrone ben dieci “no” in pochi mesi. Come nelle pagine più tristi di Tangentopoli, ci deve pensare la magistratura a chiudere la partita. Sotto Natale, la procura di Asti comincia a indagare su Garrone e Gherone per in pochi mesi arriva dritta al ministero e a Delfino. Ai primi di aprile, quando vengono perquisite le sedi romane di Buonitalia e Enoteca d’Italia, in via del Tritone, i finanziari restano a bocca aperta: si trovano di fronte ad una specie di fortezza, tuta porte blindate e casseforti. Se non fosse per la dozzina di simpatiche hostess minigonnate, sembrerebbe una filiale della Banca d’Italia. Gli investigatori si portano via una montagna di carte che la magistratura sta studiando. Da un primo esame, pare che le fatture di molte consulenze e servizi siano gonfiate, quando non completamene inventate. Subito dopo le perquisizioni, Garrone e Gherlone si sono dimessi. Delfino ha preso le distanze «da qualsiasi aspetto gestionale» e Alemanno ha dettato alle agenzie di stampa un comunicato per spiegare che Buonitalia ed Enoteca sono entità separate. Sarà, ma dalle carte sequestrate dai magistrati risulta che Buonitalia controllasse l’Enoteca al 100 per cento. “Controllasse”, perché ora la seconda è scomparsa. Dopo i primi avvisi di garanzia, il 15 maggio scorso il ministero ha messo in liquidazione l’Enoteca d’Italia «su proposta del presidente di Buonitalia, Fabrizio Morriconi», che nel frattempo si è aggiunto alla lista degli indagati. Per questa storia, giovedì 16 giugno alle 17, Alemanno ha dovuto interrompere le trame anti Fini e rispondere alle domande del procuratore Corbello nella caserma di Via Dell’Olmata. Il ministro di Alleanza Nazionale ne è uscito parecchio provato intorno alle 19,45 con il suo consueto codazzo. Alemanno, al quale non sono state ancora contestate le dichiarazioni del suo direttore Ambrosio, avrebbe ammesso di aver mancato di coraggio nel non liquidare l’Enoteca al primo campanello d’allarme. Ma si è giustificato sostenendo che Delfino premeva a difesa di Garrone. Ora, l’inchiesta di Asti è a uno snodo decisivo. Alemanno verrà certamente ascoltato di nuovo, ma la prossima volta potrebbe trovarsi nella più scomoda veste di indagato, come Delfino. Poi, Corbello dovrebbe fare delle scelte, il filone relativo a Garrone e Gherlone rimarrà in Piemonte. Quello relativo alò ministero, prima o poi, potrebbe finire alla Procura romana, ma con il quadro probabitorio ben completato. Mentre l’eventuale troncone su Alemanno e Delfino sarebbe di competenza del tribunale dei ministri. Ironia della sorte, il magistrato che ha in mano tutta la faccenda non è soltanto la toga moderata che per primo, all’inizio degli anni Ottanta, scoperchiò la Tangentopoli rossa a Torino ma fino a qualche mese fa doveva essere nominato dal governo Berlusconi alla carica di Alto commissario per la lotta alla corruzione. Gianni Letta e Antonio Catricalà lo sostenevano, forti dell’appoggio di An e Udc. Ma alla fine intervenne il premier in persona e quella delicata poltrona è finita a Gianfranco Tatozzi, buon amico di Cesare Previti. E Corbello è tornato al lavoro di sempre.

Viva il vino e pure il latte

Alcuni dei personaggi principali dell’inchiesta sull’Enoteca d’Italia, erano già apparsi nel mare magnum delle indagini sul crack della Parmalat. Gianni Alemanno è il ministro che nel marzo 2002 insieme al collega Girolamo Sirchia, firmò il contestato decreto “Frescoblu”, che autorizzava la distribuzione in Italia del latte microfiltrato sul quale Parmalat aveva investito miliardi. Dopo il crack, Romano Bernardoni, lobbista di Calisto Tanzi, ha messo a verbale tutta una serie di contributi versati per conto della Parmalat al ministro di An, tra i quali 85 mila euro per la rivista “Area”, della corrente di Alemanno. Proprio nel mese precedente il decreto, Bernardoni tempestò di telefonate (oltre 200) il direttore generale Giuseppe Ambrosio, il sottosegretario Tarsio Delfino e l’intera segreteria di Alemanno. Poi, a Natale, fu la volta dei regali a pioggia per tutto il piano nobile del ministero di Via Veneto. Mentre per Capodanno 2003, come ha rivelato due settimane fa “L’Espresso”, Alemanno e famiglia fecero un viaggio a Zanzibar con Parmatour. Una gita da 14 mila euro per la quale il gruppo di Collecchio emise regolare fattura. Ma che non risulta ancora pagata. Gli atti relativi alla posizione di Alemanno, come quelli che riguardano il suo collega Enrico la Loggia, sono stati inviati dalla Procura di Parma al Tribunale dei Ministri. Nessuno di loro, risulta indagato.

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