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L'espresso

Qui volano botti da orbi. Le guerre sul mercato internazionale del vino. Una concorrenza spietata. Dai produttori del nuovo mondo, Australia su tutti. Ai grandi distributori planetari. Ma il “made in Italy” si organizza e punta sulla qualità … Un anno fa, di questi tempi, sembrava che le campane suonassero a morto per il vino italiano e pochissimi produttori erano disposti a dichiararsi ”non del tutto pessimisti”: una vendemmia 2003 povera di qualità e in quantità, la caduta dei consumi interni, la perdita di competitività all’estero, l’incombente e concreto rischio di una massiccia penetrazione di vini del cosiddetto nuovo mondo; soprattutto, i motori dell’economia mondiale, e quindi dei consumi, in folle. Non stava meglio la Francia, anzi, con le cantine e i magazzini di Bordeaux stracolmi e con i prezzi dei vini normali, cioè non delle bottiglie superstar, in caduta libera; né dagli Stati Uniti, dal Regno Unito o, peggio ancora, dalla Germania, i mercati più importanti, si percepivano segnali precisi di un’inversione di tendenza.

Oggi, a distanza di un anno, appena conclusa a Bordeaux Vinexpo, il più importante salone mondiale del vino, i numeri e gli umori dicono che il pessimismo è stato eccessivo e, a consuntivo, il 2004 non è andato poi così male come sembrava e si può guardare avanti con fiducia. “A condizione che tutti quelli che lavorano nel vino si rendano conto che il panorama sta cambiando, in presenza di una domanda mondiale che continua a crescere, ma secondo profili e direzioni diversi da quelli del passato”, osserva Bruno Ceretto, big piemontese dei vini di qualità. Chi ricorda i volti cupi dei produttori italiani, accompagnati da curiose richieste di una sorta di Piano Marshall per rilanciare i consumi, è spiazzato dal fatto che l’export italiano risulta cresciuto nel 2004 del 5,4 per cento in valore del 6,3 per cento in volume, raggiungendo la cifra record di 2.837 milioni di euro e ponendo l’italia al primo posto nel mondo come paese esportatore, con una quota sul mercato totale del 25 per cento. Non solo. L’ultimo studio, commissionato da Vinexpo all’Iwsr (International Wines and Spirits Record) conferma le previsioni di crescita lenta ma costante dei consumi mondiali almeno sino al 2008, con ovvie differenze fra i vari mercati: Usa, primo mercato mondiale per fatturato, Gran Bretagna e Germania si avvicineranno al 40 per cento dei consumi, la Scandinavia e la Federazione Russa supereranno la Spagna; in aumento significativo l’Asia, in testa il Giappone (dove è stata superata la media di 3 litri-anno di consumo pro capite) e la Corea del Sud (dove ci si aspetta un boom), la Cina e poi Hong Kong, Thailandia, Taiwan e Singapore.

Il mercato mondiale si muove, nel 2003 si è attestato a 99,650 miliardi di dollari, con una crescita del 9 per cento rispetto al 1999 e tra il 2003 e il 2008 (sempre secondo i dati di Venexpo-Iwrs) dovrebbe aumentare del 14,7 per cento, per raggiungere 114,35 miliardi di dollari. Per fare un paragone, il fatturato mondiale del vino equivale a quello dei cosmetici ed è tre volte superiore a quello dei dischi. E mentre nel quinquennio 1999-2003 il consumo mondiale è aumentato in volume del 2,5 per cento, il fatturato è cresciuto del 7,7 per cento. Con una stima, per il decennio 1999-2008, di crescita del 9,5 per cento in volume e del 23,5 in fatturato.

Questi dati non sono sufficienti per rasserenare gli animi dei produttori dei paesi tradizionali, francesi e italiani su tutti. Perché la scommessa si gioca su due piani: il primo è quello di saper interpretare e intercettare una domanda che, in termini di mercati, di gusti dei consumatori, e di capacità di spesa, è tutta da verificare; il secondo è quello di riuscire a essere competitivi, nelle stesse fasce di qualità, con i nuovi produttori dei paesi emergenti, Australia, in primis, Cile, Argentina, Sudafrica, Nuova Zelanda, i cui vini - è vero - non sono espressione di grandi terrori, ma sono ormai tecnicamente ineccepibili e graditi ai palati del consumatore medio oltre che molto meno costosi di quelli del vecchio mondo, per non dire del pericolo, per ora non imminente, delle produzioni dell’Europa orientale, dove la tradizione del vino è forte, ma la qualità è ancora lontana. “Chi ha esagerato con i prezzi ha dovuto ripensarci; tante cantine che hanno tirato troppo la corda hanno ancora scorte molto elevate”, commenta Ceretto: “A favore del vino italiano gioca il fatto che cresce la domanda non solo nei numeri, ma anche nella qualità; cresce insomma la cultura del vino e con essa la disponibilità a spendere qualcosa in più per la bottiglia migliore”.

“Dobbiamo puntare sui cosiddetti premium wine, cioè quelli con prezzo dai 4 euro in su, a scapito dei vini da tavola”, ripete da tempo Angelo Gaja: “Dobbiamo orientarci sull’export, stanti le dimensioni ridotte del mercato italiano”. Va in questa direzione il Progetto Origine dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero. “Un programma appena varato e per promuovere negli opinion maker e nei consumatori qualificati dei paesi di sbocco più importanti la conoscenza dei vini italiani ricavati da vitigni autoctoni”, spiega Ugo Calzoni, direttore generale dell’Ice: “Con i vitigni autoctoni si rilancia l’immagine dei territori d’origine, vince l’identità del vino italiano rispetto ai pur ottimi vini che produciamo con vitigni internazionali”. “Bene promuovere il vino, ma ciò che dobbiamo esportare è la nostra cultura del vino e della tavola, dobbiamo creare opportunità di formazione sul “made in Italy” enogastronomico per operatori che diventino i nostri testimonial più credibili”, dice Marco Caprai, l’uomo che reinventato il Sagrantino di Montefalco.

Tutto ciò non basta. Gli altri, francesi in testa, hanno avviato politiche analoghe e, oggettivamente, se c’è un settore nel quale il vigneto Italia è stato carente è proprio quello del marketing, sinora prerogativa di singoli produttori più attenti e più presenti, ma anche di dimensioni tali da poter sostenere studi mirati su singoli mercati. E se la dimensione piccola e piccolissima delle nostre aziende è una garanzia di identità e di qualità, diventa un limite quando si ragiona in termini di capacità di investimenti e di penetrazioni sui nuovi mercati. Perché c’è un altro fattore che rende più deboli i piccoli ed è il ruolo crescente, per non dire decisivo, ormai assunto dai grandi distributori planetari, come le americane Constellation Brands (titolare anche di importanti marchi, come l’appena acquisito Mondavi, e del 40 per cento dell’italiana Ruffino), con un volume d’affari di 3,5 miliardi di dollari, la Southern Wines and Spirits o l’australiana Foster’s (3,9 miliardi di dollari australiani di cifra d’affari).

Italia, dunque, strutturalmente fragile: sono d’accordo Ornella Venica, di Venica & Venica e presidente del Consorzio del Collio, e Francesco Mazzei, toscano del Castello di Fonterutoli, quando sostengono che “è la filiera che è debole. Occorre aggregarsi a livello territoriale e di categoria, bisogna fare squadra, soprattutto occorre non disperdere risorse fra una miriade di soggetti e di iniziative estemporanee e frammentate”. La conclusione? Per vincere, il vino italiano deve investire sulla propria identità, sul marketing. Altrimenti presto i primati conquistati saranno messi in discussione e la qualità da sola non sarà più premiata, se non per quei pochi che peraltro sino a oggi hanno dimostrato di saper promuoversi benissimo da soli.

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