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L'espresso

Battaglia in bottiglia ... A rischio 70 mila ettari di vigneti. E centinaia di milioni di contributi. La riforma Ue investe l’Italia del vino... Le ruspe nei preziosi vigneti di tutta Europa? In Francia ne hanno fatto uno psicodramma nazionale. Le estirpazioni partite dalla Languedoc, dove sono stati distrutti 12 mila ettari di vigne, hanno suscitato reazioni sbigottite. Che però non sono riuscite a fermare una rivoluzione che dal Midi francese minaccia d’estendersi a tutto il continente. I numeri dicono infatti che, a dispetto del successo delle etichette più prestigiose, l’Europa si ritrova ad affrontare una crisi non dichiarata. Produce troppo vino di qualità medio-bassa, non riesce a venderlo e fatica a contenere l’avanzata dei concorrenti che arrivano dal Nuovo Mondo, dal Cile all’Australia, dalla California alla Nuova Zelanda. Così da Bruxelles è partita una proposta di riforma che rischia di mettere in subbuglio consuetudini consolidate in molte regioni europee, dalla Rioja spagnola alle colline del Chianti, dal Bordeaux alla Puglia. Le indicazioni elaborate dalla Commissione europea, presentate il 4 luglio dalla responsabile dell’Agricoltura Mariann Fischer Boel, vanno al cuore del settore: aprono la strada all’estirpazione di 200 mila ettari di vigneti in Europa; mettono in discussione l’utilizzo dello zucchero nei grandi vini del Nord della Francia; ambiscono a riconquistare i mercati e, soprattutto, promettono di usare in modo meno scriteriato di quanto avvenuto finora sussidi per un valore di 1,3 miliardi di euro l’anno (almeno 164 milioni destinati alla sola Italia).
In gioco c’è molto più di un semplice rinnovamento. L’abolizione di alcune misure di sostegno, la liberalizzazione dei vitigni che dal 2014 potranno essere impiantati e le nuove prescrizioni per le etichette sono solo alcuni dei punti che saranno negoziati nei prossimi mesi a Bruxelles, prima dell’entrata in vigore della riforma nell’agosto 2008. E così per i viticoltori italiani, in parte soddisfatti dalle proposte. in parte contrari alle nuove regole dell’organizzazione comune del mercato (Ocm), sarà un autunno caldo. La battaglia del vino, insomma è appena iniziata.
Un primo punto di scontro riguarda l’estirpazione volontaria dei vigneti. Se fosse raggiunto il tetto massimo previsto dall’Europa in Italia sarebbero a rischio circa 70 mila ettari, pari al 10 per cento dei filari nostrani. Federico Vecchioni. presidente di Confagricoltura, è perplesso: “Date dei soldi per togliere i vigneti è una misura contraddittoria rispetto all’obiettivo dichiarato di ottenere una maggiore competitività dei nostri vini”. C’è poi il timore che vengano penalizzate anche le migliori produzioni: “Sarebbe giusto eliminare solo i vigneti con scarsa vocazione, dopo controlli rigorosi”, sostiene Adriano Orsi, al vertice del settore vino di Fedagri e presidente di Cavit, la cooperativa trentina che raccoglie 4.500 viticoltori. Il rischio che molti intravedono è l’estirpazione dei filari solo per accaparrarsi i contributi (7.174 euro per ettaro il primo anno, fino a 2.938 nel 2013). Una possibilità che, però, si confronta con l’esigenza di molti agricoltori di abbandonare un’attività non più redditizia. I tagli più consistenti? Secondo il vicentino Gianni Zonin, proprietario della casa vinicola Zonin, maggiormente a rischio sono “Puglia, Sicilia e Campania, perché i prezzi dell’uva sono molto bassi e incentivi adeguati potrebbero indurre i coltivatori a valutate la proposta europea”.
Fra i grandi produttori, però, la soppressione registra consensi di peso. Angelo Gaja, dell’azienda piemontese, mette il dito nella piaga: “ Per trent’anni l’Italia ha accumulato eccedenze; non sono mai stati presi provvedimenti perché si faceva affidamento sulle sovvenzioni per distruggere il vino in eccesso. Per riequilibrare il mercato, l’estirpazione è inevitabile”. Quel che si taglia oggi, tuttavia, non è escluso che rispunti domani, grazie alla liberalizzazione degli impianti prevista dal 2014: “È una contraddizione”, dice Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc, “perché renderebbe inutili gli sforzi fatti per la riqualificazione destabilizzando il settore. La zona coltivata del Chianti potrebbe raddoppiare da 17 mila a quasi 35 mila ettari”.
Alle spalle della riforma e delle trattative tra le parti si intrecciano anche grandi interessi economici. Che ruotano soprattutto intorno alla sovrapproduzione - per il 2007 la Ue prevede un surplus di 13 milioni di ettolitri - e alla successiva distillazione di crisi (vino trasformato in alcol in caso di eccedenza). Capita infatti che molti coltivino uva di troppo per ricevere gli aiuti europei, e che nel gioco intervengano anche gli imbottigliatori, che spingono per acquistare grappoli a basso prezzo. nonché le aziende di alcolici, che comprano il distillato. Così negli ultimi tempi l’Europa ha messo a disposizione circa 500 milioni di euro l’anno proprio per distillare prodotti per i quali non c’è mercato: soldi finiti non a incentivare etichette di qualità, ma semplicemente a “bruciare il vino”, come dicono, inorriditi, gli esperti. E anche l’Italia ha fatto man bassa di sussidi: nel 2006 è stata accettata la richiesta di distillazione per 2,5 milioni di ettolitri di vino da tavola e per 100 mila di quello di qualità.
La proposta di eliminare queste sovvenzioni incontra molti pareti favorevoli, a partite da Piero Antinori, numero uno della storica azienda di famiglia: “I fondi hanno dato risultati marginali e sarebbe più opportuno indirizzarli alla promozione”, dice. Chi difende gli interessi degli agricoltori, però, mette le mani avanti: “ Confagricoltura è favorevole all’abolizione della distillazione di crisi”, spiega Vecchioni “chiediamo però che il processo sia gradualmente distribuito negli anni”. Comunque sia, il boccone de: sussidi è così succulento che nello scontro non si risparmiano astuzie e contromosse. Da una parte ci sono le cantine del Nord Europa, stanche di sovvenzionare le iperproduzioni del Sud. Dall’altra i Paesi mediterranei, che giocano la carta polemica del divieto di utilizzare lo zucchero per aumentare la gradazione alcolica, una pratica utilizzata nelle regioni più fredde. Sui due piatti della bilancia verranno così contrapposte la richiesta di divieto di zuccheraggio e l’eliminazione dei contributi per l’utilizzo del più caro mosto concentrato. Ma l’equazione ‘zuccheraggio uguale vino cattivo al di là delle battaglie di bandiera, non è corretta. Lo spiega Gianni Zonin: “Molti grandi vini della Francia settentrionale, gli alsaziani, gli chateaux del Bordeaux, lo champagne, vengono prodotti con l’aggiunta di zucchero, che costa meno del mosto concentrato”. È dunque difficile che una delle raggiungete due parti ceda: probabilmente si cercherà di raggiungere un compromesso che soddisfi tutti.
Fra i punti critici c’è anche il progetto di segnalare annata e vitigno sulle etichette dei vini senza indicazione geografica. In poche parole, anche su quelle dei vini da tavola, che vengono prodotti con regole meno rigide rispetto a quelle previste per le altre categorie. La novità metterebbe in crisi la classificazione in voga in Italia che prevede, a metà strada tra i Doc e i vini da tavola, i cosiddetti “Igt”, una sigla che sta per “Indicazione geografica tipica”. Già oggi vi rientra un po’ di tutto, dalle bottiglie da centinaia di euro dei cosiddetti “Supertuscan”, a quelle a poco prezzo. “Specificando vitigno e anno di vendemmia, i vini da tavola sembrerebbero simili agli Igt, senza però rispondere alle stesse regole. Si vanificherebbe così la qualità dei veri igt e dei Doc”, sostiene Adriano Orsi. Si dice invece d’accordo Angelo Gaja; “I vini da tavola sono stati penalizzati nel confronto con quelli stranieri, che possono indicate anno e varietà sull’etichetta. La nuova soluzione permetterebbe di dare maggiore appeal a quel 25-30 per cento di prodotto italiano che da sempre alimenta l’eccesso di produzione”.
Arrivare a un accordo sarà dunque complesso. Il problema è capire se, alla fine, la riforma sarà efficace per il futuro del vino italiano. E se gli obiettivi prospettati dall’Ue faranno aumentare la competitività contro produzioni extra-europee in costante aumento. Nonostante le difficoltà, nel 2006 l’Italia si è confermata davanti alla Francia la nazione che esporta di più, circa 18 milioni di ettolitri. Il boom è soprattutto negli Stati Uniti, dove le esportazioni italiane sono cresciute del 18 per cento rispetto all’anno precedente. Questi risultati sono stati ottenuti a dispetto della presenza, nei Paesi emergenti. di veri e propri colossi, forti di una maggior capacità di effettuare investimenti su larga scala e di offrire al mercato vini ad hoc, secondo le indicazioni che giungono dagli uffici marketing. Per fate un esempio, l’ultima indagine sul settore effettuata da R&S, l’ufficio studi di Mediobanca, ha evidenziato come la somma dei ricavi delle prime cinque società vinicole italiane, pari a circa un miliardo, equivalga ad appena un quarto del fatturato del gruppo americano Constellation Brands, leader mondiale con 3,9 miliardi di euro.
Pur considerato questo handicap, i numeri del mercato mostrano che il potenziale del vino “made in Italy” resta intatto. E che, forse, è arrivato il momento di investire maggiormente su quel patrimonio di varietà tipiche che finora non è stato sufficientemente valorizzato. Spiega Piero Antinori: “Ci sono vitigni autoctoni o di lunga tradizione con un potenziale che finora non si è saputo sfruttate per intero. Penso al Nebbiolo e al Sangiovese, al Negroamaro e al Nero d’Avola, che potrebbero veder valorizzata la loro identità italiana”.

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