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L'espresso

Odissea nel menù ... Folla solo nei weekend. Niente pranzi di lavoro. Poco vino. Ecco perché nel 2009 metà dei locali ha fatturato di meno... Certo, se prendiamo a riferimento marzo del 2009, che ha registrato il picco negativo di tutti gli indicatori, possiamo dire che oggi stiamo leggermente meglio e che forse il peggio è passato. Ma da qui a dire che la tendenza si è invertita ce ne passa. No, non sarà ancora questo 2010 l’anno della ripresa per la ristorazione italiana. E comunque ci vorrà un bel po’ di tempo per smaltire gli effetti di un 2009 pesantissimo... È disincantato Lino Stoppani, presidente della Fipe, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, e titolare con i suoi fratelli di Peck, “il negozio più buono del mondo”, secondo il giudizio unanime dei frequentatori delle cattedrali della gola. In effetti, le rilevazioni della stessa Fipe dicono che nel 2009 oltre il 50 per cento delle poco meno di 100 mila (96.888 per la precisione) imprese dell’universo ristorazione - tutti compresi dalle osterie all’alta cucina, passando per birrerie, pizzerie e trattorie - ha registrato una flessione del fatturato rispetto al 2008 e quattro su dieci hanno dichiarato un ridimensionamento dell’occupazione (con un saldo negativo di un migliaio di imprese fra quelle nuove nate e quelle cessate nell’arco dell’anno). E i primi mesi del 2010 non autorizzano ottimismo, né sul fronte delle performance economiche né sull’andamento dell’occupazione. Se si restringe l’obiettivo alla cosiddetta ristorazione di qualità, escludendo cioè pizzerie, osterie e piccole trattorie, la situazione si rivela ancor più critica. I casi di sofferenza maggiormente acuta si sono manifestati nella fascia alta, con chiusure di numerosi ristoranti biasonati, fallimenti, richieste di sequestri e di pignoramenti, drastici ridimensionamenti degli organici e, nei casi meno gravi, riposizionamenti sul mercato con abbassamento del livello di offerta. Una recente indagine condotta dalla Fipe su un campione della fascia alta, ovvero dei 5.500 ristoranti recensiti dalle tre guide di riferimento per la ristorazione di qualità (Michelin, Espresso e Gambero Rosso), fissa nel 7,1 per cento il calo medio di fatturato dei ristoranti nel 2009 rispetto al 2007. Calo che sale al 10,7 per cento per quelli con conto medio superiore a 75 euro. Dati, questi, che riflettono il meno 8,7 per cento del numero di coperti serviti, che diventa meno 15,7 per cento per i ristoranti con conto medio di oltre 100 euro. Nel 55 per cento di questi ristoranti si registra una decisa diminuzione nel consumo di pasti completi, con la grande maggioranza dei clienti che limita la propria scelta a due, massimo tre portate. Altri fattori di sofferenza sono la drastica riduzione dell’attività a pranzo, con la sostanziale scomparsa degli appuntamenti di lavoro, e la forte discontinuità nella distribuzione dei clienti fra i vari servizi, che crea oltretutto problemi seri negli approvvigionamenti, con vuoti pesanti nel corso della settimana e insostenibile concentrazione nei weekend, durante i quali le prenotazioni superano i posti disponibili. Ad appesantire i conti di chi ha una cantina importante si aggiunge poi il forte calo del consumo dei vini e il sostanziale venir meno di quello di superalcolici: la volontà dei clienti di spendere meno - si rinuncia più facilmente alla bottiglia pregiata che al grande piatto - combinata con gli effetti dell’indiscriminata campagna proibizionistica hanno provocato una sensibile caduta dei consumi, rilevata dal 71 per cento dei ristoranti di qualità. “È ovvio che la crisi dell’economia abbia investito anche la ristorazione, ma ci sono problemi specifici e strutturali con i quali la categoria deve fare i conti”, dice Stoppani: “Per esempio, il livello dei costi fissi, e soprattutto quello del personale, che nella fascia alta incide ormai per circa il 50 per cento, non è compatibile con l’equilibrio economico delle imprese. Il ristoratore deve sempre più essere imprenditore: non basta saper ricevere e cucinare; è indispensabile essere capaci di gestire. Il che vuole anche dire essere più flessibili e articolati nell’offerta: prevedere piatti e menu differenti nei diversi orari della giornata, ottimizzare l’impiego del personale su più servizi, puntare sugli apporti esterni e sul catering, razionalizzare gli investimenti in funzione delle aspettative dei clienti che in grande maggioranza richiedono più qualità della cucina e dei prodotti che non lusso fine a se stesso”. Sempre dalla ricerca della Fipe emerge un altro dato eloquente. La produttività dei pubblici esercizi, cioè il valore aggiunto per unità di lavoro, è in caduta libera: fatto 100 il dato del 2000, oggi siamo sotto di 13 punti. Anche in Italia, sull’esempio francese, gli chef più affermati e avveduti hanno cominciato ad aprire un secondo locale, bistrot o trattoria, dove traducono la loro cucina griffata in piatti più semplici e a prezzi contenuti: Le Calandre, Moreno Cedroni, Massimo Bottura, Claudio Sadler, Enrico Crippa, Antonello Colonna. Mentre altri, come Gianfranco Vissani, hanno introdotto la formula del light-menu completo a pranzo. Come dire: per permettermi di fare il poeta senza guadagnare o addirittura in perdita da qualche altra parte devo pur far quadrare i conti. Campane a morto, quindi, per le grandi tavole, in Italia come all’estero, e fine della rincorsa per molti rovinosa agli orpelli che parrebbero indispensabili per conquistare le ambite stelle Michelin? No. Molti non la pensano così, a partire da Antonio Santini, Dal Pescatore, vitalissimo monumento all’ospitalità e al gusto a Canneto sull’Oglio, ed egli stesso rappresentante italiano nel board dell’esclusiva Associazione “Les Grandes Tables du Monde”, già “Traditions et Qualité”. Dice Santini: “I numeri e il confronto con i clienti internazionali confermano che esiste e continuerà a esistere uno spazio importante tanto per gli alberghi quanto per i ristoranti di alta qualità. È chiaro che occorrono strutture solide, sia dal punto di vista finanziario sia da quello delle professionalità e delle risorse umane”. Secondo Santini, “oggi è più facile di ieri comunicare il lusso, l’eleganza e la qualità e non è affatto vero, al di là delle cadute congiunturali, che il bello, il buono, l’eccellenza degli ambienti, del servizio, delle cantine, non rappresentino più motivi di richiamo. Occorre reagire”, aggiunge Santini in questo d’accordo con Stoppani, “con massicce dosi di cultura dell’ospitalità, di formazione di personale, di promozione delle nostre eccellenze non solo gastronomiche. Insieme alla nostra cucina e ai nostri vini dobbiamo vendere i paesaggi, i musei, l’arte, la cultura in generale. Tra l’altro, come paese, non ci resta molto altro da proporre”.

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