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La Nazione / Il Giorno / Il Resto Del Carlino

Lamberto Frescobaldi: "Dobbiamo fare come i francesi per lo Chamoagne: resistere" ... Le limitazioni dell'uso corrente di menzioni tradizionali, come «vin santo» o «riserva», «classico» o «Morellino», danneggerebbero pesantemente la nostra enologia. Lo sa bene quella classe di giovani imprenditori formati nelle aziende storiche. Tra loro Lamberto Frescobaldi, 38 anni, dall'89 impegnato nella conduzione delle aziende vitivinicole di famiglia. Che effetto fa l'ipotesi di uno «scippo» del vin santo? «Avvalora la tesi di chi sostiene che occorre fare chiarezza anche sui nomi. Ne è esempio proprio il vin santo. Quello naturale, in Toscana, si fa con l'uva appassita sulle stuoie, invecchiato nei caratelli. Ma porta lo stesso nome del vin santo liquoroso, che è cosa diversa. Insomma, nel caos si legittimano coloro che avanzano primogeniture, come i greci che hanno chiesto l'utilizzo del termine vin santo per i vini che vengono da Santorini. In questo caso è una disputa tra noi e quel paese e dovremo dimostrare che vin santo è anche una nostra peculiarità tradizionale». Forse qualche anno fa, quando la forza commerciale del vino era inferiore, dispute del genere non avrebbero trovato cittadinanza. «Non c'è dubbio. Le opportunità commerciali generano appetiti. La globalizzazione rimpicciolisce il mondo e tutti pensiamo di poter vendere ovunque qualsiasi cosa». In Maremma voi Frescobaldi producete Morellino. E' anch'esso a rischio? «Quella del Morellino è zona di produzione. Il vitigno è il Sangiovese. Se qualcuno vorrà produrre Morellino in Australia o California non potrà, anche se il rischio al momento c'è. E' una storia che si ripete. Basta ricordare la storia dello Champagne, regione della Francia che ha dato nome ai vini con le bollicine di tutto il mondo finchè i francesi non hanno levato gli scudi. Dobbiamo fare altrettanto per difendere i nostri prodotti e i loro nomi, come classico o superiore per il Chianti o riserva per il Brunello». Non sarà che i nostri lobbisti a Bruxelles non reggono il passo? «La vitivinicoltura è cresciuta così in fretta che quasi non eravamo preparati. Nel '92 non si riusciva a vendere l'uva in Chianti a 37.000 lire al quintale. Oggi costa 220.000 lire. Il gioco si è fatto importante, eppure pochi anni fa abbiamo avuto un referendum per abolire il ministero dell'Agricoltura. Follia: occorre un ministro forte e presente dove si prendono le decisioni. E servirebbe maggiore incisività delle organizzazioni sindacali, come Confagricoltura, in sede comunitaria, perché la vitivinicoltura ha anche un indotto da difendere». Risorse umane che mancano o troppo individualismo? «Quando le cose vanno bene si tende a lavorare da soli, mentre sarebbe meglio pianificare. Negli ultimi cinque o sei anni il mercato ha tirato, fino alle alleanze tra vino e salute o vino e moda. E' il momento di guardare oltre, riorganizzando le rappresentanze sindacali e di prodotto».

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