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La Nazione / Il Giorno / Il Resto Del Carlino

Vizi d’autore - Di bicchiere in bicchiere, quante sbronze da antologia ... Il proibizionismo è lo stimolo di tutte le trasgressioni come dimostrano in questi giorni i molti difensori della sigaretta libera e del sigaro gratuito. Più una società si perbenizza e più sono inevitabili le infrazioni e il desiderio di una parte di assumere il ruolo maudit che da sempre si esprime nel triangolo bacco-tabacco-venere (o Apollo, a seconda dei casi). Lo stesso sesso-droga&rock’nroll è soltanto una tarda variante degli antichi riti, comuni a molte civiltà, durante i quali si bevevo, si faceva uso di erbe diversamente tossiche e si danzava fino a perdere conoscenza.

Da Omero a Hemingway

In relazione alle nuove norme sul fumo entrate in vigore il dieci gennaio, non tarderanno di sicuro ad uscire sussidiari del fumatore dissociato ma non pentito, guide ai rifugi del tabagista, manuali per “accendersela beffando gli spioni di Sirchia” e simili. E se il ministro della Salute volesse mettere mano anche all’alcol, ricordi che su questo fronte i devoti sono ancora più agguerriti, sono preparatissimi e hanno dalla loro una storia millenaria. Proprio nelle ultime settimane in Italia sono usciti due libri che dimostrano come gli adepti del vino, del whisky e degli altri liquidi graduati, siano già in allerta. Due scrittori giovani (anagraficamente e come “genere”), i torinesi Enrico Remmert e Luca Ragagnin, si sono messi insieme per fare l’”Elogio della sbronza consapevole” (Marsilio), ovvero una piccola enciclopedia delle citazioni etiliche. L’alcol, infatti, come viene assai efficacemente dimostrato dall’antologia, è “un tema che inzuppa la letteratura di tutti i tempi e di tutte le geografie”.

L’antico Testamento e Omero, ovviamente, ma anche molti grandi dell’antichità che, come gli scrittori di ogni epoca, tessevano le lodi del vino in quanto essi stessi grandi bevitori. Alcuni lo facevano “per dimenticare i dolori”, ma i più ritenevano che grazie a qualche coppa di “ambrosia” la conversazione sarebbe stata più piacevole o addirittura le idee si sarebbero fatte più chiare come pare accadesse a Socrate, famoso per le quantità di vino che era capace di ingurgitare senza però mai perdere il filo del discorso.

Nessuna sorpresa quando si trovano tra gli estimatori Cecco Angiolieri e il Magnifico del “chi vuol essere lieto sia”, Baudelarie, Rabelais o Poe. Meno scontata la presenza nella raccolta di scrittori e poeti come Parini, Manzoni, Pascoli, Carducci o della severa Doris Lessing (“Si può bere troppo, ma non si beve mai abbastanza”!).

Il divertente excursus presegue per nazionalità: gli autori italiani (e forse anche i bevitori italiani) non sono quasi mai smodati e infatti i vari Calvino, Fenoglio, Pavese, Buzzati non parlano di sbronze, piuttosto di quel bicchierotto corroborante a cui non necessariamente ne segue un secondo. Altra musica è quella del capitolo dedicato a Gran Bretagna e Irlanda: da Lord Byron a Dickens, da Joyce a Beckett, l’alcol, in qualunque versione, viene ingurgitato in dosi massicce, anzi “A galloni, sorseggiati, trangugiati, ingoiiati d’un fiato”.

Anche tedeschi e nord-europei inghiottono birra e altro fino a scoppiare, ma spesso si agita in loro un disgusto per se stessi che finisce per rovinare l’ubriacatura. Qualcosa di similmente amaro resta sullo stomaco dei russi che hanno fatto bagordi, mentre sono del tutto esenti da sensi di colpa i grandi bevitori americani (ma pare che i piccoli lì non esistano proprio). Non a caso Hemingway - che non era un semplice assaggiatore, bensì, come è noto, una spugna - ha scritto in “Morte nel pomeriggio” che “il vino è uno dei maggiori segni di civiltà del mondo”. Per non parlare delle lodi intessute da Bukowsky, Kerouac, Carver, Fitzgerald, Steinbeck a qualunque bevanda atta a provocare cirrosi. Perfino Edgar Lee Masters, nel cimitero di Spoon River, sistema in luogo particolarmente favorevole “L’ubriacone della città” che ammonisce: “Prendete nota, anime prudenti e pie/delle controcorrenti del mondo/che danno onore ai morti vissuti nell’onta”.

Ebbrezza e pentimento

L’altro libro cui accennavamo all’inizio è l’acuto ed eccessivo Trattato sui postumi della sbornia del basco Juan Bas, tradotto e pubblicato da Castelvecchi. Anche qui, dove appunto si affronta il momento senza dubbio più spiacevole, ossia il “dopo-bevuta”, vi sono illustri precedenti - da Churchill al capitano Willard di Apocalypse Now - ciascuno con il suo particolare “postumo”. A proposito: a quanto pare l’italiano è una delle poche lingue al mondo dove non c’è neppure una parola che indica qual particolare stato (d’animo, di stomaco e di testa) che si registra dopo una memorabile sbronza. Nelle altre lingue vi sono più termini per evocare quelle che Bas chiama “le ore dell’inutile pentimento” e, a riguardo, la terminologia comparata stilata dallo scrittore basco è un piccolo gioiello: in castigliano i postumi della sborna sono definiti come “resaca”, risacca, che rende molto bene l’idea di un qualcosa che ci risucchia, anche paurosamente, nostro malgrado. In genere in tutti i paesi di lingua spagnola il “giorno dopo” è descritto con efficacia. A Cuba dicono “sono in preda alla persecutrice” (perseguiodra), in Uruguay e Cile è “avere l’accettata” (el hachazo), mentre in Perù ci si sveglia “con i pupazzi” (con los munecos). I norvegesi invece si alzano “con i falegnami in testa”, e sempre in testa, piantato nel centro della fronte, sta il “chiodo” degli olandesi che hanno alzato il gomito.

Tuttavia, è noto, neppure il più agghiacciante dei “postumi” induce il bevitore a farla finita con l’alcol e forse dovremmo rallegrarcene poiché senza ebbrezza a quanti capolavori avrebbe dovuto rinunciare l’umanità? Scrive Orazio, “Non possono piacere a lungo né vivere i versi scritti dai bevitori d’acqua”. (arretrato de "La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino" del 18 gennaio 2005)

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