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La Repubblica / Affari & Finanza

Ricchi fondi per grandi griffe, va di moda il private equity ... Nessun grosso polo del lusso in Italia. E’ un dato di fatto. Ma se gli industriali italiani non sono riusciti a metterlo in piedi, ci sono nuovi attori che stanno creando aggregazioni di marchi italiani, con l’obiettivo di finanziarne la crescita. Lo sviluppo della moda, del design e di tutto quello che ha un ‘sapore’ tipicamente italiano sembra, quindi riporre parte delle sue speranze nei fondi di Private Equity. Oggi in Italia sono in due a fronteggiarsi. Da un lato il Fondo Opera che, operativo dal 2001, guidato da Renato Preti è partecipato al 50% da Bulgari, dall’altro lato c’è Charme che, molto più giovane, nato un anno e mezzo fa, è della famiglia Montezemolo affiancata da vari partner industriali. La leadership in questo momento, anche per ragioni di anzianità sul mercato, è di Opera, confermata dall’alleanza stretta in questi giorni con la Bear Stearns Merchant Banking, uno dei principali operatori di Private Equity degli Stati Uniti che, guidato dall’amministratore delegato John Howard, destinerà fino a 200 milioni di euro a investimenti da fare insieme a Opera in aziende italiane che fatturino oltre 100 milioni di euro e che operino in settori legati all’Italian lifestyle. Una bella somma a cui si aggiungono ad oggi i 150 milioni a disposizione di Opera (considerando anche la neonata Opera 2). Morale: Opera oggi ha più quattrini da spendere e un network di contatti più potente nel mercato americano per sviluppare le aziende italiane partecipate. Intanto a quattro anni dalla nascita Opera sta ricalibrando le sue strategie. «Ci focalizzeremo su aziende un po’ più grandi», conferma Preti. Le più piccole partecipate da Opera sono A. G. Ferrari, retailer specializzato nella gastronomia italiana, e Itama, che fa imbarcazioni di lusso e che è in fase avanzata di vendita.
Sino ad oggi il fondo ha acquisito aziende diverse tra loro, da Sector che fa orologi a larga diffusione, a Magli che fa scarpe, dalla B&B che fa mobili di design di alta qualità a Unopiù che fa arredo di lusso da esterni. In proposito commenta Preti: «Vorremmo fare delle sinergie all’interno dei singoli settori, a valle o a monte dei marchi che abbiamo e in altri settori in cui entreremo come quelli del vino, del turismo e dell’alimentare». E tirando un bilancio di questi anni di attività commenta: «Il primo investimento lo abbiamo fatto tre anni fa e da allora abbiamo dovuto remare contro un mercato internazionale negativo, ma abbiamo comunque creato valore su Unopiù, B&B e Sector, mentre abbiamo avuto ritardi su Magli». Ma se l’obiettivo finale di Opera, come per tutti i fondi di Private Equity è quello di creare valore per le aziende per poi rivendere le partecipazioni o quotarle in Borsa, per il gruppo Bulgari che spalleggia Opera, ci potrebbero essere anche altri obiettivi. Per esempio la creazione di un futuro polo del lusso italiano. «Con la partecipazione nel fondo Opera vogliamo innanzitutto fare guadagni sugli investimenti, ma anche comprare certe aziende del fondo. Non è successo sino ad oggi, ma potrebbe succedere in futuro» risponde Francesco Trapani amministratore delegato del gruppo Bulgari. Viene spontaneo chiedere se Opera possa essere interessata a Versace. «Non ci risulta che la maison sia in vendita — commenta Trapani — noi comunque non abbiamo negoziati in corso. Non escludiamo, ad ogni modo, che in futuro ci possa interessare visto che è attiva in uno dei settori a cui guarda Opera».
Il competitor diretto di Opera, cioè Charme, deve ancora dimostrare il suo valore sul campo visto che è ancora molto giovane. Fino ad oggi ha mostrato un atteggiamento cauto. Se da un lato ha acquisito la maggioranza di Ballantyne, che fa cachemire di lusso, si è limitata invece ad un 30% in Poltrona Frau attraverso la quale ha portato a casa Cappellini. Il fondo di Montezemolo sino a ora ha usato i guanti anche nella gestione delle aziende che ha acquisito, per lo meno rispetto ad Opera che generalmente ha portato all’interno delle partecipate molti nuovi manager.
A mostrare interesse verso il made in Italy ci sono diversi altri fondi, tra cui L Capital che, con capitale di Lvmh, più che avere una strategia mirata a sviluppare brand del made in Italy, sembra funzionale al gruppo del lusso d’Oltralpe, una sorta di osservatorio privilegiato in Italia, dove come unica operazione ha acquisito il 30% in Antichi Pellettieri che fa capo al gruppo Mariella Burani.
Comunque sia il Private Equity si sta dando da fare nei settori della moda e del lusso. Secondo uno studio di Pambianco Strategie di Impresa dal 2002 al primo trimestre di quest’anno su un totale di 384 operazioni di fusione e acquisizione, a livello internazionale, 48 sono state fatte dal Private Equity il che rappresenta un crescita del 13%. Le operazioni fatte da operatori finanziari italiani in Italia sono state 16. «Un numero di operazioni ancora basso per diversi motivi — spiega Diego Pampallona a capo della divisione Merger & Acquisition di Pambianco—: l’imprenditore famigliare è ancora riluttante a far entrare un socio istituzionale; la dimensione troppo piccola delle aziende scoraggia i fondi ad entrarvi; e lì dove non ci fossero questi due problemi, rimane comunque la complessità della formula imprenditoriale italiana. Seguire un’azienda del settore moda o arredamento vuol dire avere un certo grado di specializzazione». Prosegue: «In Italia ci vorrebbero fondi di Private Equity che fossero talmente innovativi da cercare di creare delle aggregazione nel mondo delle filiere in modo da superare il problema delle limitate dimensioni delle aziende italiane». Chi sta facendo questo lavoro in realtà non è un fondo ma un’azienda, la Mariella Burani Fashion Group che, partendo da un suo posizionamento chiaro nel settore con un suo marchio, ha poi cominciato a fare acquisizioni, creando aree di specializzazione, come ha fatto con Antichi Pellettieri, sub holding della divisione leather good di Mariella Burani Fashion Group, che oggi controlla sette società che operano nella produzione e distribuzione di calzature, borse, abbigliamento in pelle di lusso. «Si muovono in un’ottica di holding industriale — finanziaria. Una specie di fondo virtuale» commenta Pampallona.
Intanto ci potrebbero essere altri che guardano al made in Italy con interesse. C’è chi ha in cassa molti soldi, ma è ancora fermo come Clessidra (fondato da Claudio Sposito, ex ad di Fininvest), un fondo chiuso di diritto italiano che a ottobre 2003 aveva raccolto 560 milioni di euro con un obiettivo finale di 1 miliardi di euro.
Insomma, tutto lascia credere che nei prossimi anni il trend di crescita di questo tipo di operazioni nei settori della moda e lusso continuerà a ritmi più sostenuti di quelli attuali. (arretrato de "La Repubblica - Affari & Finanza del 21 giugno 2004)

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