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La Repubblica / Affari & Finanza

Alta qualità, ricetta anticrisi, Dop e Igp sono il vero business. Il bilancio delle famiglie prevede sempre più tecnologia a danno di cibo e vini, ma le industrie alimentari si salvano con le fasce ricche della popolazione che non vogliono rinunciare ad acquistare i prodotti migliori ... Si spende di meno, si mangia sempre meglio. Una tendenza a doppia corsia che vede da una parte una forte contrazione dei consumi indotta dalla crisi, dall’altra un aumento delle vendite di prodotti a cosiddetto valore aggiunto, categoria che raccoglie sia i cibi di elevata qualità, come le Dop e le Igp, che i prodotti preparati, come le insalate scelte, pulite e lavate, che fanno risparmiare tempo.
Il pane quotidiano, dicono le rilevazioni, è ormai la tecnologia. Si impennano le vendite di cellulari e i servizi collegati a tutto quanto è elettronico e telematico. Così, chi non ha disponibilità economiche sufficienti non ha esitazioni: «Invece del prosciutto mangia la mortadella, ma non rinuncia agli Sms», è il luogo comune che circola tra gli addetti al settore. Diversa la situazione sul versante opposto, quelli degli heavyspender, le fasce di popolazione dotate di potere di acquisto elevato: non rinunciano ai prodotti migliori. La crisi galoppa e l’Italia, anche a tavola, appare profondamente divisa, tra poveri e ricchi. La forbice si allarga sempre più. Ma la frattura, drammatica dal punto di vista del portafoglio, si ricompone dal punto di vista degli atteggiamenti, del costume alimentare. Pur dovendo tirare la cinghia, infatti, l’italiano è sempre orientato alla qualità; magari, appunto, tra prosciutto e mortadella opta per la seconda, ma la vuole comunque buona. Insomma, sceglie il prodotto "più povero" ma sempre di qualità. Invece dell’orata, il soase, per esempio: lo consigliano molti grandi chef, nelle scuole di cucina, a riprova che non sempre chi spende di più compra il meglio. Anzi. L’abbuffata consumistica del passato ha fatto impennare le quotazioni di pochi prodotti di moda, facendo dimenticare la ricchezza dal patrimonio agroalimentare del nostro paese. Anche nel vino: «Fino a solo qualche anno fa era di moda tra gli amanti del vino di qualità dire: ieri ho bevuto una grande etichetta a 100 euro. Oggi si sente più spesso ripetere: guarda che chicca che ho trovato, e a soli 20 euro», racconta Emilio Pedron, presidente Giv, Gruppo Italiano Vini, primo in Italia per fatturato, con etichette che spaziano dalla fascia bassa al top, un osservatorio privilegiato per capire che vento tira.
«Sicuramente l’Italia insieme alla Francia, ha un posizionamento abbastanza importante sui consumi alimentari procapite, che risultano di 2.000 euro per abitante, mentre sono più ridotti in altri paesi. I fabbisogni alimentari sono per lo più inalterati da decenni, uguali ovunque. Se alcuni paesi, come Italia e Francia spendono di più è perché si acquistano sempre di più produzioni di qualità, tipiche, biologiche e via di seguito», racconta Silvia Zucconi, responsabile Commercio e Consumi di Nomism>BR>. Le rilevazioni di Nomisma - effettuate su dati Eurostat, Us Census Bureau e Bankitalia - parlano chiaro: dal Regno Unito in giù i consumi alimentari - compresi i pasti consumati fuori casa - procapite scendono da 1.500 euro fino ai 1.000 degli Usa. Mentre Italia e Francia spendono 2.000 euro l’anno, la Germania 1.800 e la Spagna 1700. Restando in Italia, prese quattro fasce di reddito, dal 1998 al 2002 quelle posizionate più in basso, ovvero il 25% della popolazione, hanno ridotto i consumi alimentari procapite dell’11,5%, a fronte di un aumento dei consumi totali del 4,9%. I mediobasso spendenti, altro 25% della popolazione, hanno ridotto i consumi alimentari del 3,9%, a fronte di un aumento dei consumi totali del 2,6%. I medioalto hanno aumentato i consumi alimentari del 5,5% e quelli totali di 8,8%. Infine gli altospendenti: +4,7% di consumi alimentari, +7% di consumi totali. Insomma, la crisi si fa sentire e, dopo il 2002, con l’arrivo dell’euro, il trend si è ancor più accentuato.
Ma il palato esigente degli italiani, pur messo a dura prova dalla stretta economica, non viene meno a certi principi. Siamo il paese con il maggior consumo di prodotti Dop, denominazione origine protetta, e Igp, identificazione geografica protetta, che nel 2004 hanno fatto registrare un valore al consumo di oltre 9 miliardi di euro. Seguiti a ruota dalla Francia. Forte invece il distacco degli altri paesi, evidenziano le rilevazioni dei dati dell’Osservatorio prodotti tipici di Nomisma.
Prosciutto di Parma, Grana padano, Parmigiano Reggiano, Prosciutto di San Daniele, Mozzarella di bufala campana: nella top ten dei consumi alimentari sono marchi noti e produzioni tipiche del territorio a determinare i criteri di scelta, seguiti, al terzo posto, dalla convenienza di prezzo. Marchi che si trovano anche nei supermermercati a prezzi competitivi rispetto ai negozi tradizionali, ragion per cui si tende ad acquistarli nel canale della grande distribuzione. Dal 2000 al 2005, dicono sempre le rilevazioni Nomisma, le piccole superfici hanno segnato una riduzione del 10,4%, a fronte di un incremento dei iper e supermercati e di un vero e proprio boom degli hard discount. I negozi chiudono, spuntano le boutique del gusto, angoli dove si vendono prodotti di nicchia, spesso prevenienti dal bacino locale. La rivoluzione Slow Food, la cultura dei prodotti di qualità, si mantiene anche in momenti di forte crisi.
Una tendenza che si registra anche per il vino. «La forbice si allarga, crescono da una parte i vini messi sullo scaffale a meno di 1,5 euro e dall’altra quelli che costano più di 5 euro. Chi ha difficoltà di acquisto compra bottiglie che costano meno, ma pur sempre bottiglie, che già costituiscono un salto di qualità. La fascia di consumatori bassa è inoltre aiutata dal fatto che oggi, rispetto al passato, anche il vino al cartone è comunque di qualità discreta e controllato», racconta Emilio Pedron, Nel mondo del vino si assiste anche a uno sgonfiamento dei prezzi, dovuto alla forte concorrenza tra produttori. «Quello che un tempo si vendeva a 10 oggi si vende a 6. E anche chi ama il vino di buona qualità si è fatto più esigente, ma tiene sempre una mano sul portafoglio», commenta Emilio Pedron. Cambiano anche i consumi fuori casa, dove cominciamo a seguire gli spagnoli, molto più abituati di noi a mangiar fuori. Secondo i dati Nielsen il consumo fuori casa totale di vino non cala, ma cambia il modo e il luogo in cui viene venduto: meno nei ristoranti, di più nei wine bar e negli stessi bar, dove invece prima era compresso tra aperitivi e altre bevande.
Le aziende vitivinicole italiane scommettono su un incremento dei fatturati e, soprattutto, su un’impennata delle esportazioni: 50 fra i produttori più importanti del nostro Paese interpellati da www.winenews.it in collaborazione con Vinitaly, sentono "a pelle" che il 2006 sarà un anno positivo o abbastanza positivo.
Autore: Paola Jadeluca

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