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La Repubblica / Affari & Finanza

Dacci oggi il nostro brand quotidiano. Aumenta la produzione di vini caratterizzati da un marchio, che sono in forte crescita nei consumi. Distintività e qualità sono oggi la leva anche di etichette di fascia bassa ... Un 2006 all’insegna di grandi etichette. I produttori di vino si stanno presentando sul mercato con un aumento del 19 % delle bottiglie di alta qualità, a scapito dei vini Doc e Igt, dice l’annuale rilevazione condotta dal centro studi di Mediobanca sul settore vitivinicolo. Una scelta in linea con le tendenze dei consumatori che ritengono il cibo e il vino prodotti di prestigio, che innalzano la qualità della vita, contribuiscono a farci "sentire a casa nel mondo", una categoria utilizzata dagli stessi analisti finanziari, in particolare i private banker, che amministrano i patrimoni delle famiglie più agiate. Una concezione del lavoro e del tempo libero in cui una nuova serie di beni e servizi sono considerati una commodity. Una soft commodity, appunto, come si chiama in Borsa, alla quale si guarda sia come investimento che come gusto del buon vivere.

La strategia dei produttori italiani ha fatto risalire le vendite, anche se l’incremento è ancora cauto, come sottolinea lo studio di Mediobanca. Il primo, piccolo, premio dopo un periodo di flessione. La fase negativa ha coinciso, guarda caso, con la forte ascesa sui mercati mondiali dei vini dei cosiddetti paesi emergenti, Australia in testa. Secondo le analisi di Euromonitor, il successo degli australiani, a discapito negli anni passati dei vini italiani e francesi, è dovuta principalmente alle strategie di marketing fortemente focalizzate sul brand, il marchio, anche nella fascia di prodotti massmarket, ovvero di massa. «Fare branding è il segreto dell’appeal verso la base dei consumatori», scrive Euromonitor in uno studio realizzato in concomitanza con il boom dei vini australiani.

Un concetto ribadito ancora oggi da alcuni studi del Californian Wine Institute, presentati nel corso di un convengo che si è tenuto al Vinitaly di Verona agli inizi di aprile, convegno organizzato dall'Area Wine Business del Mib School of Management di Trieste, sul tema "Il valore del Brand per vino e territorio". Secondo il Californian Wine Institute, risulta più alta la crescita dei vini di marca, brand wine, con un incremento del 15% in 3 anni, rispetto a prodotti con marchi poco noti o indifferenziati. E questo in particolare nel segmento dei vini sopra i 34 euro al pubblico, la fascia che si prevede crescerà maggiormente nei prossimi anni e in cui la competizione sarà più forte.

Ne è prova il forte interesse con il quale gli australiani hanno investito proprio su questo segmento, ponendosi come obiettivo il diventare il fornitore più influente e profittevole di "brand wine" al mondo, portando il vino a divenire su molti mercati la prima scelta come bevanda associata ad un elevato stile di vita.

Il marchio, infatti, è un segnale che riflette la distintività di "varietà, regione e produttore" e mira a massimizzare l'opportunità per il vino di catturare la crescita dei business complementari nei settori del turismo, food e lifestyle. I "top 100 marchi di vino" costituiscono il 48% di tutti i vini venduti nei ristoranti americani, dice un’indagine di Wine Business, Dei 100 , 65 sono californiani, 16 italiani, 6 dall’Australia e 4 dalla Francia.

Il marchio può funzionare anche senza il territorio, ma solo se l'azienda è grande e può godere di risorse finanziarie e di marketing tali da poter lavorare sul brand, è ancora quanto emerso al convegno organizzato dal Mib. Le aziende italiane, dunque, tipicamente mediopiccole, possono far leva sul territorio fonte di valore per il marchio. Grande peso possono avere i territori subregionali, quelli ad esempio delle Doc, ed il loro marchio. Ma non i Consorzi come ora li conosciamo, bensì entità più complesse (anche cluster o distretti) che ai servizi tecnici e di tutela affianchino competenze di marketing e di valorizzazione del marchio. In questo scenario si inserisce il ruolo importante giocato dai tre più grandi gruppi produttori italiani, Caviro, Giv, Cavit. Raccolgono sotto di loro tanti marchi, acquisiti nel tempo, che li portano spesse alle vette delle recensioni enologiche. Senza però trascurare il mercato dei vini di livello più basso al quale offrono, appunto, etichette di marca, contraddistinte, sinonimo di qualità.
Grandi gruppi cooperativi, un concetto antico che nelle logiche moderne dominate dai network, dalle reti, agili e snelle, hanno dato vita a big del settore, dove l’industrializzazione, l’economia di scala convive con la diversità territoriale, la specificità dei marchi. Una strategie vincente. Che consente a questi tre gruppi elevate capacità di investimenti, anche in ricerca. Prendiamo la Cavit di Trento, guidata da Giacinto Giacomini.

Ha una cantina tecnologicamente avanzata, dove spiccano apparecchiature d’avanguardia che consentono di fare screening superspecialistici, molti in collaborazione con l’Istituto di San Michele all’Adige, considerato la fucina dei cervelli dell’enologia italiana. Gioielli hitech che pochi produttori italiani di fama possono permettersi. Figuriamoci, singolarmente presi, i piccoli soci che conferiscono le loro uve alla cooperativa. In rete, possono invece contare su know how e strutture di livello internazionale.

Caviro, diretta da Sergio Dagnino, con più di 40 cantine sociali e un fatturato di oltre 268 milioni di euro è un altro esempio di come si possa garantire un prodotto di qualità dalla fascia bassa dei consumi al top. Vini per tutti i giorni, ma garantiti, "connotati". Un passo avanti notevole per un paese dove ancora si vendono ettolitri di vino sfuso senza controlli. A vent’anni dallo scandalo del metanolo l’export del vino italiano è quadruplicato, dicono i dati diffusi nel corso di un convegno organizzato dalla Coldiretti proprio su questo tema. Gli analisti di Mediobanca sottolineano che uno dei talloni di Achille delle cooperative è però il basso Roi, return on investment, causato dal fatto che questi gruppi non controllano tutta la filiera, visto che sono i soci a conferire le uve. Ma nuovi strumenti, a partire dalla finanza, si fanno avanti per colmare il gap. Giv, gruppo italiano vini, guidato da Emilio Pedron, è un altro big con marchi superpremiati ed etichette di fascia quotidiana: nel 2008, quando avrà completato la trasformazione in Spa, punta a quotarsi in Borsa. Ma sta valutando l’ipotesi di usare, prima, la leva del private equity: per garantirsi un socio finanziario forte e completare, appunto, il controllo della filiera.

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