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La Repubblica / Affari & Finanza

“Facciamo troppo spumante senza qualità” … L’allarme di Maurizio Zanella, presidente del Consorzio Franciacorta: “I numeri che descrivono il nostro sorpasso sui produttori di champagne non sono attendibili. Non è la quantità l’obiettivo da perseguire”. Una polemica che riprende le posizioni espresse da Centromarca sui prezzi troppo bassi... “Stanno tutti dando i numeri, noi non abbiamo battuto lo Champagne. Lo sbandierato successo dello spumante italiano, analizzando i numeri, è frutto - salvo pochissime eccezioni - di un prodotto assolutamente anonimo che deve le sue performance unicamente a prezzi unitari bassissimi”. Non usa mezzi termini Maurizio Zanella, presidente del Consorzio di tutela della Franciacorta, nonché produttore di Ca’ del Bosco, uno dei marchi blasonati di questo territorio in provincia di Brescia famoso per le sue bollicine. Da una settimana con le sue proteste ha scatenato un putiferio sui siti specializzati in enologia. “Regolarmente, tutti gli anni tra Natale e gennaio leggo l’enorme quantità di notizie che rimbalzano sui quotidiani, sui blog, sui magazine, prodotte da vari enti e associazioni di categoria contenenti dati di vendita delle bollicine Made in Italy nel mondo, i consumi previsti durante le festività e soprattutto la notizia che lo spumante italiano avrebbe superato quest’anno, lo Champagne per i volumi di vendita: ma non sono vere, non sono reali - tuona Zanella -. Il 60% delle vendite di spumanti e champagne si fa a Natale, come facciamo a dare le rilevazioni prima? Non solo, con l’intento di valorizzare il made in Italy, questi numeri enfatizzati creano confusione tra i prodotti, facendo un fascio unico di bollicine Doc e Docg con tutti i vini spumanti prodotti con metodo classico e quelli nei grandi contenitori, con qualità e prezzo molto diversi tra loro”. Un intervento, il suo, che punta a valorizzare i prodotti di fascia alta e i singoli territori italiani: “Facciamo un unico calderone e lo confrontiamo con lo Champagne, che è una denominazione che si produce in un territorio definito, è come se volessimo paragonare tutti i rossi italiani con il Bordeaux mentre per questa tipologia di vino si parla di denominazioni: Barolo, Chianti, Brunello di Montalcino, Amarone, per citarne alcuni. Ognuno ha un suo metodo di produzione, suoi vitigni e, soprattutto, un territorio specifico che si distingue da tutti gli altri perle sue caratteristiche”. La polemica cade nel pieno di quella che già viene definita la Rinascita del Made in Italy, una riscossa capitanata da marchi prestigiosi e che recentemente è stata rilanciata da Centromarca - Associazione dei
marchi di qualità insieme alla Fondazione Ernesto Iily, che sulla base di una indagine condotta dalla Bocconi hanno registrato una nuova tendenza: le politiche di prezzo non premiano più, vince chi fa qualità, innovazione. Una tendenza, sottolineano le rilevazioni di Altagamma, che raccoglie i top brand anche dell’enologia, che dopo la crisi vede premiata l’eccellenza, con la quale oggi più che mai il Made in Italy può vincere la competizione globale. In particolare, nel settore vitivinicolo, vincono oggi i territori, unici e irripetibili, che legano i vini alla specificità e cultura di ogni singolo
triangolo di terra, l’arma con la quale siamo riusciti a vincere la sfida con i produttori del nuovo mondo, australiani e neozelandesi in primis, che hanno conquistato il mercato con spregiudicate politiche di prezzo basate sul marketing di vitigni internazionali senza una specifica identità di provenienza: chardonnay, merlot e via di seguito. Se per i grandi rossi e i grandi bianchi l’Italia è riuscita a seguire le orme dei francesi, imbattibili nella loro capacità di commercializzare il concetto di territorio, sulle bollicine siamo in ritardo. “La parola spumante va eliminata”, incalza Zanella. Negli anni alcune denominazioni hanno fatto grandi sforzi di coordinamento: l’Asti, il Prosecco e il Franciacorta. E’ nata la denominazione Trento doc, un brand di territorio che ha sancito la forza del distretto delle bollicine nato e cresciuto attorno alla cantina Ferrari, della famiglia Lunelli. Il brand di territorio dà forza e visibilità a tutti i produttori, anche più piccoli, consentendo ai consumatori di identificare sotto lo stesso nome la provenienza, il disciplinare di produzione, il vitigno etc. Stessa cosa con il Franciacorta, che con i marchi Berlucchi, Maria Clementi, Bellavista è salito nell’Olimpo dell’enologia mondiale. In questa terra è spuntato ora un marchio biodinamico, Barone Pizzini, che ha conquistato il cuore e il palato di Cario Petrini, fondatore di SlowFood. Quest’anno il Franciacorta ha battuto ogni record con 10 milioni di bottiglie cima crescita del 10%: un dato ottenuto contando le fascette sostitutive dei contrassegni di stato rilasciate dal Consorzio che raccoglie il 97% dei produttori. E qui entriamo in un’altra babele all’italiana. Esistono tante fascette per di verse tipologie di prodotto. Le dovrebbe dare lo Stato, ma non ce la fa e ha delegato i consorzi: “Gialle, rosse, verdi, a seconda della “denominazione” del vino cambia il colore. Un ginepraio che disorienta il consumatore”, denuncia Giampietro Comolli, direttore dell’Osve l’Osservatorio sui vini, che ogni anno pubblica tutti i dati delle diverse tipologie: Docg, Doc, DoIgt, Vsq-Vs-generico, Oltrepò Pavese: una vera e propria giungla. Anche Comolli è finito sotto le critiche. Lui lavora a campione: “Sono statistico, dal 1990 faccio statistiche sul vino”, racconta con vemenza Comolli: “Ho un panel, un campione significativo, con il quale rilevo produzione e spedizione, in Italia e all’estero. Il problema non sono le polemiche sui numeri ma la mancanza di chiarezza sulla riconoscibilità dei prodotti, come in Francia”. Una bagarre. Ma alla fine, lo spumante ha battuto lo champagne? No, soprattutto dal punto di vista della contabilità: loro conteggiano tutte le bottiglie uscite da ogni cantina. Al 100%.

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