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“Non teme rivali, mira all’export il Sangiovese pronto al decollo” ... Da astemio ad enologo e presidente del consorzio, Giordano Zinzani spiega: “sulla qualità non ci sentiamo secondi ai vini toscani. dobbiamo soltanto accreditare i nostri brand. si comincia col tour negli Usa. vogliamo sfondare sui mercati canadese e del Nord Europa. Vendemmia nella media, meno quantità”... La Romagna è ancora “giovane” sul mercato “ del vino, ma non temiamo la concorrenza dal punto di vista della qualità. Ora la scommessa è superare i nostri confini per arrivare fino in Canada e in nord Europa”. Quando l’enologo Giordano Zinzani, 60 anni, parla dei vigneti della sua terra d’origine, lo fa quasi con gelosia. Da queste parti “allevare”, come rivendica lui, l’uva è una tradizione secolare: dai colli imolesi fino al mar Adriatico, passando per Faenza, dove Zinzani ha mosso i primi passi. Iniziando da ragazzo alla scuola enologica (“ho affrontato gli studi da astemio, apprezzando il vino col tempo”) fino a diventare nel 2008 presidente del Consorzio vini di Romagna. Da trent’ anni lavora alla Caviro - dove oggi è direttore enologico - il colosso coop che produce dal semplice Tavernello a pregiate etichette di Chianti e Brunello. L’ingrediente di base, però, è sempre lo stesso: il vitigno Sangiovese, re dei colli romagnoli, In milioni di bottiglie che lui custodisce come fosse un “templare”. Ora è tempo di svecchiare l’immagine della Romagna per lanciarsi sui mercati stranieri, dice Zinizani: “Oggi esportiamo il 30% della nostra produzione ma dobbiamo trovare nuovi sbocchi. Stiamo lavorando per far conoscere i nostri vigneti all’estero”.

Quali sono le prime impressioni della vendemmia 2014?

“Siamo nella media. La vendemmia, come nel resto d’Italia, non è stata felicissima perché le - piogge dei mesi estivi hanno inciso sulla maturazione dell’uva e sono mancate le ore di sole per una perfetta maturazione”.

Quanto ha pesato l’estate “pazza” sulla quantità dei raccolti?

“Non abbiamo ancora dati definitivi, ma dai primi sondaggi il calo si aggira intorno al 15%. Però il 2013 fu annata abbondante”.

C’è quindi il rischio di un’impennata dei prezzi?

“Tutte le regioni sono arrivate a questa vendemmia con giacenze di magazzino elevate. Quindi i prezzi rimarranno stabili, visto anche il momento di difficoltà che vive il Paese. Meglio evitare sbalzi nei listini. Negli ultimi anni abbiamo visto come, davanti all’aumento dei prezzi, c’è un calo delle vendite. E noi abbiamo bisogno di vendere, visto che la concorrenza straniera è agguerrita”.

Qual è lo stato di salute dell’industria enologica romagnola?

“Dal punto di vista produttivo andiamo bene. Dal 2000 a oggi abbiamo rinnovato molto vigneti, tecnologia e cantine. Ci sono grandi potenzialità ma non abbiamo ancora la tradizione che c’è in Piemonte o Toscana. A volte registriamo problemi a farci apprezzare fuori”.

È un problema di qualità delle vigne?

“No, i nostri limiti sono più sul brand dell’immagine della Romagna come terra di vini. Abbiamo anche una minore diversità rispetto alle altre regioni: per noi la collina è quasi tutta Sangiovese ed è il vitigno su cui puntiamo di più. Il più pregiato è l’Albana ma è di nicchia e ancora poco conosciuto fuori”.

Come pensate di superare questi limiti?
“Col Consorzio inizieremo un tour negli Usa, portando lì le piccole aziende. E poi punteremo su Canada e nord Europa”.

Le cantine della Romagna sono però affette da “nanismo”.

“Abbiamo due tipologie: le grandi cooperative che esportano milioni di bottiglie e i piccoli produttori da poche migliaia di bottiglie”.

Mancano quelle medio grandi.

“Esatto, ma al disotto di certi volumi è difficile affrontare i mercati. Fino a1 2011 in Romagna c’erano oltre 200 aziende che imbottigliavano, oggi siamo scesi a 150”.

In Italia le vendite sul mercato interno sono al palo. Quelle dei produttori romagnoli come vanno?

“Negli ultimi anni sono stabili, ci siamo allargati dove già esportavamo ma i numeri non sono decollati”.

Quali Paesi preferiscono il vino dei vostri colli?

Rispetto ai volumi: Inghilterra, Germania, Stati Uniti e Giappone. Vendiamo in una miriade di altri Paesi, dalla Russia al Brasile ma per ora si tratta di piccoli ordinativi”.

Tutti parlano della “ubriacatura” del mercato cinese?

“Se ne parla ma i volumi dei produttori italiani sono ancora modesti. Il nostro vino non è molto conosciuto al grande pubblico, senza contare gli errori degli operatori”.

Ad esempio?

“Molti si sono improvvisati, iniziando a esportare convinti che in Asia ci fossero grandi sbocchi”.

Risultato?
“Sono rimasti coi magazzini pieni”.

È successo anche a voi?

“Il nostro paradosso è che il Sangiovese all’estero è conosciuto come Chianti”.

Meglio quello romagnolo o toscano?

“Di recente abbiamo curato la pubblicazione di un libro in cui si attesta che in Romagna il Sangiovese ha assunto questo nome fin dal 1672. Ne rivendichiamo la paternità, anche se sentiamo molto la rivalità con la Toscana, ma sulla qualità non ci sentiamo secondi”.

La competizione degli stranieri “morde” i vostri vigneti?

“La concorrenza mondiale non è facile, perché ci sono Paesi che si sono affacciati da poco ma puntano su vitigni internazionali, come Cabernet o Chardonnay, e prezzi aggressivi. Penso a Cile, Sud Africa o Spagna”.

Come se ne esce?

“Tenendo alta la qualità e facendo squadra per veicolare i nostri vitigni tradizionali. Ma dobbiamo fare un salto dimensionale, puntando anche su grande distribuzione e mercati dove i consumi sono in crescita”.

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