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La Repubblica / D

Avere fame ... Migliaia di dandy del gusto stanno invadendo il paneta. Di cosa hanno paura?... Escludo categoricamente che questa gente possieda papille gustative sensibili come quelle che millanta di avere. Mi hanno trascinato a una degustazione di vini e formaggi. È pieno di gente che degusta, assapora e sorseggia. E commenta. Uno lo conosco (di vista) da sempre. Si chiama Edoardo. È un broker. Fino ai 25 anni si abboffava come un maiale, poi ha seguito un corso da sommelier ed eccolo qui, rivestito come un raffinato gentleman metropolitano. “Deciso. Ampio. Fumoso. Liquirizia o sbaglio? U-uh-uh, anche ciliegia, giusto?”. Non si tratta di un caso isolato.
Un esercito di cicisbei del gusto sta invadendo il pianeta. È uno spettacolo che dilaga, ovunque, soprattutto tra chi vota a sinistra, che dalla lotta per il soddisfacimento dei bisogni primari è passato al godimento di quelli secondari, dal desiderio di riempire la pancia di tutti all’impegno a sollazzare la propria. In pubblico quasi nessuno mangia più con la soddisfazione che si prova solo quando non ci si presta troppa attenzione. È una gara a descrivere piatti e a commentarli. Un trionfo sensoriale che non riguarda solo il cibo. Bocca, occhi, nasi, orecchi sono bestiole da viziare con ogni ben di dio. Basta guardarsi intorno: televisori HD panoramici e hi-fi pazzeschi che poi servono a vedere “Porta a porta” e ascoltare Paola&Chiara. Tutto incominciò nei fantastici anni 80, quando l’uomo occidentale si accorse che i sensi non gli servivano soltanto a sopravvivere, ma anche a godere. Il capitalismo era alla ricerca di nuovi mercati, e la tendenza gli venne molto comoda (forse la favorì, forse la inventò). Da allora il processo non si è fermato e, anzi, negli ultimi dieci anni è esploso, con il corollario ideologico della riscoperta degli antichi sapori e del salutismo, coinvolgendo strati sempre più ampi della popolazione (naturalmente rimodulando i piaceri sulle disponibilità economiche) fino a configurare una nuova figura umana che qui viene nominata per la prima volta: il dandy di massa (intendendo con dandy chi mostra un’attenzione rituale e costante per la qualità e il piacere). Oltre alle motivazioni economiche e sociali, ci sono quelle psicologiche. Il sospetto è che la ricerca spasmodica della qualità in ogni campo esprima due sensazioni distinte e limitrofe. La prima è una forma di insensibilità, la seconda una declinazione della paura. Forse il dandy di massa presta tanta attenzione al soddisfacimento dei sensi perché sente di essere diventato insensibile, che la vita, senza un surplus di attenzione e di ritualità, è troppo scialba perché ne valga la pena. Da questo punto di vista, la raffinatezza funziona da stupefacente per acuire i sensi e risvegliarli dal loro torpore. Poi c’è la paura. Perché il godimento si accompagna alla convinzione che quello che non è eccelso faccia ammalare e, alla lunga, uccida. Come se altrimenti si diventasse immortali. È quanto aveva intuito Gafyn Llawloch, il grande anarchico gallese: “Io li odio i dandy di Glasgow. Indossano un’aria di superiorità che è una fuga dal mondo. Ostentano una raffinatezza che mi appare una penosa recita di felicità”. Mentre la degustazione volge al termine, mi metto a pedinare il mio conoscente. L’atmosfera è più distesa. Si aggira in solitudine, pensieroso e felice, e poi d’improwiso - zac! - si scola un bicchiere avanzato da un altro - glup! -, fa altri due passi, agguanta un cioccolatino alla violetta, ci avvolge intorno una fetta di speck e - gnam! - trangugia. Si guarda intorno, sorride soddisfatto, fa un ruttino e prosegue il suo tour.

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