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La Repubblica

Si fa presto a dire vino quel lungo viaggio tra gusto e memoria. Che ne sanno gli italiani della bevanda nazionale? Tutto e niente, risponde uno scrittore ripercorrendo la complessa rete di sapori, ricordi e sapienza popolare che sottende il gesto di scegliere una bottiglia E per saperne di più un noto eno-critico scrive un libro che svela i retroscena di un’industria e di una moda ...

L’Assaggiatore - L’editore Einaudi ha mandato in libreria in questi giorni, nella collana Stile libero Extra, le “Memorie di un assaggiatore di vini” di Daniele Cernilli. Considerato a livello internazionale tra i più influenti “uomini del vino”, Cernilli cura da diciannove edizioni la “Guida dei vini” del Gambero Rosso- Slow Food (ed è anche condirettore della rivista “Gambero Rosso”). Le citazioni che arricchiscono questa pagina sono tratte dal volume, il primo in cui Cernilli si presenta direttamente al pubblico

Umani - “Non amo i vini troppo costosi. Ce ne sono di imperdibili, ma ne esistono moltissimi che hanno un prezzo ‘umano’, e vorrei proprio partire da lì”

Scalpore - “Vini d’Italia, era quello il nome della guida, fece scalpore più per il fatto che un gruppo di persone che scrivevano sul ‘manifesto’ si occupavano di vini di qualità”

Profumi - “Le memorie di un assaggiatore di vini sono fatte di luoghi, di ricordi e di personaggi, ma anche di profumi, di colori e di sapori”

... Che ne sanno del vino gli italiani? Tutto e niente perché il rapporto che hanno con il vino è un rapporto di memorie, di sentimento assai più che di gusto. Intanto dividiamoli fra quelli che lo fanno e quelli che solo lo bevono. Io per parte di nonno appartengo ai primi. Mio nonno era uno di quei piemontesi delle terre di grano e di frutta che l’uva se la fanno arrivare dalle terre di vigna. È quasi sempre uva di seconda qualità e il vino che fanno acidulo resta sullo stomaco. Posso dirlo perché seguii in alcune campagne elettorali un mio cugino senatore socialista: risalivamo le valli del Cuneese e a ogni paese si doveva berne una, «beivumne una», con i compagni. Alla sera eravamo fuori combattimento. Anche mio nonno Giovanni Re si faceva arrivare l’uva dalle parti di La Morra. Ma solo ora ho saputo le uve che quelli di La Morra vendono a quelli della pianura, sono del versante nord che scende su Cherasco, terre di gesso per un vino duro e senza profumo. Comunque per noi erano il massimo: riempivamo il tino nella cantina e le pestavamo con i piedi. Quando mio nonno si accorgeva che i fumi del mosto stavano dandomi alla testa, e vedevo le fiamme delle candele oscillare come se in cantina fosse arrivato un vento, mi prendeva in braccio e mi portava a dormire.
Il vino vero della Morra l’ho bevuto più tardi, negli anni Quaranta, quando eravamo partigiani a Monforte e il vecchio Contermo dell’osteria del ponte scendeva in cantina, anzi nell’inferno, la sottocantina per le bottiglie rare, e tornava su con quelle che aveva murate per il matrimonio dei figli, ma ora con la guerra ci aveva ripensato: «Meglio che le beviamo noi che i tedeschi ». Il vino di Barbatresco me lo sono bevuto nei primi anni del dopoguerra nella cantina di Bianco Alfredo, che lo spillava dalle botti con una provetta di vetro, lo scolava nel bicchiere l’alzava alle luci del tramonto e gli usciva fuori un grido di giubilo che planava sulle colline nel tepore della sera. Il Nebbiolo e il Dolcetto lo fanno i vignaioli ma il Barolo pare lo faccia il buon Dio, se è vero quel che diceva a un pranzo da Cesare a Albaretto della Torre quel reverendo ultracentenario arrivato da Fossano con gli amici a festeggiare con peperoni in bagna cauda e tajarin tartufati. Uno di quei pranzi che hanno inizio lento ma poi affondano nelle ore come un coltello nel burro, solo il crepuscolo ti avverte che è ora di tornare a casa.
E il reverendo, piccolo e spelacchiato, si alzò a parlare e ringraziava il buon Dio che ha creato il seme che poi germoglia e poi diventa albero e che dà il frutto da cui questo meraviglioso Barolo. E chi se non Dio ha creato il sole che fa maturare i grappoli? Le prove di San Tommaso non mi avevano mai convinto ma queste del reverendo mi parevano inoppugnabili. C’è una cultura del vino in Italia? Se sto a quelli che vengono a pranzo da me c’è un apprezzamento ancestrale che arriva da lontanissimo per i vini buoni. Metti in tavola quattro bottiglie di vino buono ma normale e quattro di eccelso e tutti, anche quelli che bevono solo acqua o Coca Cola, scelgono subito l’eccelso. E non lo bevono come una rarità, come un peccato di gola ma come se fosse il loro vino, quello di ogni pasto. Ma non lo comprerebbero mai, l’idea di spendere cinquanta o cento euro per una bottiglia è inimmaginabile, nessuno di loro ha una cantina, se invitano qualcuno scendono a comprare quattro bottiglie dal vinaio o dal droghiere.
E ti chiedono: «Ma come fai ad avere questo vino? ». «Lo compero», dico. «Da chi?», chiedono. «Dai produttori. Ci sono libri in cui si dice come si chiamano e cosa producono». Sembrano interessati ma ordinare del vino per la maggior parte della gente è una impresa misteriosa. È scoppiata la moda del vino, l’Italia intera è piena di mostre, feste, cerimonie in cui folle di italiani fanno ruotare il vino dei calici come degli esperti, non fai in tempo a versarglielo nel bicchiere e sono già lì che lo guardano in trasparenza, lo odorano, lo girano e rigirano come se avessero passato la vita a fare il sommelier. E ogni mese c’è una nuova moda: del vino siciliano, di quello umbro, del pugliese.
Perché oggi tutti hanno imparato a lavorare il vino e i bianchi meridionali sono di gusto fino come quelli del Friuli e gli spumanti della Franciacorta sono meglio degli champagne e quelli della Valtellina barricati e irriconoscibili. Ci sono delle macchine che danno al vino la gradazione alcolica che vuoi, di tredici, di quattordici gradi, che un tempo erano vini da dessert. In certo senso si beve meglio che in passato, porcherie come i falsi Barolo, i falsi Dolcetto, che per decenni si sono bevuti nelle nostre osterie e che hanno provocato le morti precoci di nostri padri e nonni, sono scomparse ma le forzature si scoprono ancora, i vini meridionali rivelano il loro fondo marsalato, quelli che in ogni regione hanno trovato il loro appassionato produttore rivelano ancora la loro inconsistenza. Perché i vini buoni vengono dai terreni da vino buoni, dalle Langhe e dal Novarese in Piemonte, dal Veneto e dal Friuli, da alcune province toscane e aveva ragione quel vescovo tedesco a piantare i suoi avvisi di Est Est Est per avvisare che dalle parti di Chiusi c’era vino buono. E infatti Angelo Gaja, che del rosso buono è il re, ci ha aperto le sue cantine.

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