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La Repubblica

Così è finita la moda del barrique...
E intanto si riscoprono le tecniche enologiche romane e medievali.
Da anni gli appassionati di vino più esigenti trattano i vini maturati in barrique - piccola botte da circa duecento litri - con distacco ironico, quando non con aperto fastidio. Le mode nel settore del vino si susseguono con la stessa spietata volubilità che governa il mondo dell’abbigliamento. I vini affinati in barrique fanno oggi la parte delle spalle imbottite dei vestiti anni Ottanta. Perfino nell’enologia statunitense, la più barricaiola di tutte, si trovano sempre più etichette che sbandierano “not barrique aged”, vino non invecchiato in barrique. Nel generale clima di condanna senza appello sono finite varietà di uva compagne classiche della barrique, Chardonnay e Cabernet Sauvignon in testa. In questo momento in Italia furoreggiano i vini ottenuti da uve locali, altrimenti dette autoctone. Meglio se vinificate con tecniche tardomedievali, o romane, o greche, o fenicie. In un tripudio di orci di terracotta e dolia (sorta di grosse anfore) dell’antica Roma, per un anacronismo paradossale la moderna barrique è ormai un ferrovecchio; o almeno lo è per l’avanguardia degli snob e per il produttore al passo con i tempi. Ma l’orticello degli enomaniaci è piccolo, poche migliaia di esperti spocchiosi. In compenso, ad aumentare la confusione del normale consumatore, ecco la polemica sull’uso dei trucioli, una specie di surrogato a basso costo della vera barrique. Per aiutare a districarsi tra vini «barricati», vini non barricati e vini che per brevità potremmo chiamare «truciolati», ecco qualche semplice linea guida, mirata ai bianchi, vini "estivi" per antonomasia. Tanto per cominciare, la barrique è uno tra i tanti strumenti a disposizione dell’enologo, non per trasmettere al vino sentori di legno (variamente descritti come speziati, dolci, di tostatura, eccetera), ma per stabilizzarlo, rendendolo cioè più equilibrato e più adatto ad attraversare il tempo in bottiglia, senza alterarsi. La cessione di aromi è un dettaglio secondario, e nei vini migliori si percepisce appena. Per cui, se mettendo il naso in un bianco barricato ci sentite quasi soltanto note di vaniglia, di cannella, o quant’altro, siete in presenza di un bianco furbetto, non certo di grande livello. Diffidate poi dell’equazione «bianco in barrique uguale bianco di classe». Esistono centinaia di bianchi ottimi, pur senza passare dal legno. Bianchi che stanno in contenitori d’acciaio, o al massimo di cemento. Qui gli esempi, da nord a sud, si sprecano: dai vini dell’Alto Adige (dal Sylvaner al Veltliner) ai profumati Vermentino di Sardegna, passando per decine di tipologie impossibili da elencare, l’Italia è piena di bottiglie non barricate che offrono freschezza acida (fondamentale per non essere stanchi dopo un solo sorso di vino) e delicata aromaticità. Quanto ai trucioli, dei quali una recente direttiva europea ha consentito l’uso, è presto detto: è un espediente modesto per scimmiottare gli aromi più volgari dei cattivi bianchi in barrique: una dolcezza stucchevole sia nei profumi che al gusto, completamente scissa dal corpo del vino, quindi riconoscibile anche da un bevitore poco esperto. Scandaloso per i vini che costano più di 5 euro a bottiglia, autolesionistico per quelli che costano più di 8 euro, è un impiego tollerabile per i prodotti di fascia bassa e bassissima: quelli più vicini a una bevanda industriale che a un vino vero. Anche se, onestamente, rappresentano un ripiegamento triste per la millenaria cultura del vino italiano, che pure in passato non si è fatta mancare intrugli e bassezze assortite.
Gli autori, membri italiani del Grand Jury Européen du Vin, curano per l’Espresso la guida “Vini d’Italia”.
(arretrato del 6 agosto 2006) 

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