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La Repubblica

Gallerie del gusto ... La voglia di mangiarsi il museo... angiarealmuseo è facile, perfino banale. Mangiare il museo e tutt’altra cosa. E’ questo il vero fascino dei musei del cibo disseminata nel mondo dalla monumentale aragosta australiana che campeggia a pochi km da Caims per invitare i turisti a scoprire i segreti della regina del mare del Queensland, alla “Hamburger Home” di Seymour, Wisconsin, terra-madre del sandwich di carne.
Nessun’altra esposizione di arte&cultura coinvolge i cinque sensi per intero. Per quanto straordinari siano gli allestimenti, per quanto alto sia il livello delle opere selezionate, impossibile andare oltre ai più estasiato degli sguardi, all’ascolto più attento dei commenti dell’audio-guida. Nei musei del cibo è diverso: certo, si guarda e si ascolta. Ma poi si annusa, si tocca, si gusta, in un percorso che coinvolge anima e corpo, con l’aggettivo “multisensoriale” al centro dell’esperienza.
Certo, non tutti i musei sono uguali, anche tra quelli che parlano di un singolo cibo, che siano bistecche o tartufi, arance o biscotti. Più i paesi sono distanti dalla cultura popolare del cibo, più i musei dedicati sono costruiti in maniera sgargiante, trionfante, eccessiva. Spesso, la spettacolarizzazione degli alimenti nasconde l’incertezza delle filiere, gli artifici delle produzioni,
l’amnesia dei sapori originari. In compenso, il “Paese goloso” ancora stenta a riconoscersi come paradiso della cultura alimentare. I nostri musei del cibo non sono sistematizzati: al contrario, appaiono e scompaiono dalla geografia delle esposizioni alimentari, ostaggio delle iniziative di singole aziende o di consorzi virtuosi come fosse vergognoso dare sostanza intellettuale alla banalità del mangiare quotidiano.
E invece, basta entrare in uno delle decine di luoghi recensiti nel bel libro a cura di Culturagastronomica.it, per respirare cultura vera insieme ai meravigliosi sapori di pasta, pane, olio, caffè, vino, miele. Difficile, se non impossibile, trovare giganteschi crostacei di plastica o mostruosi super-panini ad accoglierci all’ingresso. Ma una volta all’interno, ci si riscopre ragazzini curiosi, ammaliati da percorsi sobri nella disposizione e ricchissimi di ancoraggi storici, sociali, scientifici, organolettici. Perché malgrado il cibo ci piaccia, ci incuriosisca, ci affascini, ne sappiamo poco o nulla, il distacco ormai cinquantenario dalle generazioni che avevano un rapporto diretto e massiccio con la produzione alimentare - l’italia contadina - ci ha privati di una sapienza millenaria. Reciso il cordone ombelicale con la Terra Madre, la filiera del cibo è diventata mistero glorioso, un po’ come quando in Non ci resta che piangere, Massimo Troisi cerca di spiegare a Leonardo da Vinci il funzionamento della locomotiva senza riuscirci.
Le domande sono mille, dalla differenza tra lievito naturale e lievito di birra, a come si possono ottenere vini bianchi da uve nere, da quant’è pericolosa l’afta epizootica a che cos’è la rafflnazione dello zucchero. Piccole grandi questioni che non ci poniamo mai: quando facciamo la spesa, quando mangiamo, quando offriamo cibo, diamo tutto per scontato, senza troppo pensarci su. E invece, dentro i musei, passando da una sala all’altra, si moltiplicano i rimbalzi tra memorie d’infanzia e rivelazioni inattese, odori dimenticati e nuove tecnologie fulminanti.
Se ancora non vi basta, regalatevi due itinerari a latere, a Santa Vittoria d’Alba, Cuneo, sede della Diageo Glass Collection, che espone oltre cento bicchieri, coppe e calici da 2.500 anni a oggi. Oppure, raggiungete l’antica città di Acerra, nel Napoletano, e il suo bellissimo Museo di Pulcinella, dove troverete l’inno ai maccheroni e al cibo da strada. A fine tour, guai a chi si nega un piatto di spaghetti al pomodoro, mangiati rigorosamente con le mani.

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