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La Repubblica

Tokyo, gli chef contro la Michelin “Non all’altezza” ... La cucina francese prevale sempre troppo.
Così le critiche arrivano anche in Italia... Tempi duri per il Bibendum. Non bastano le mostre itineranti, le celebrazioni, i centodieci anni di vita portati con dimagrita (dopo l’ultimo restyling) bonomia. Il logo gourmand della Michelin è ormai avversato in terra giapponese, dove la prima Guida Rossa di Tokyo, uscita a fine 2007, scatena discussioni sempre più accese a fronte delle quasi 300.000 copie vendute. Ieri, il NewYork Times ha mandato in passerella le lamentele del sindaco della capitale, alla guida di una foltissima schiera di cuochi locali - a Tokyo i ristoranti superano i 160.000 - contraria alla selezione compiuta dagli ispettori.
Al suo debutto asiatico la Rossa aveva destato scalpore soprattutto per il numero di stelle attribui
te, 191, contro le 97 di Parigi e le 54 di New York. Ma Jean-Luc Nare direttore internazionale della bibbia mondiale dei gourmet, si era ben districato dal gomitolo delle polemiche, esibendo la proporzione tra numero di abitanti e menzioni, Ma adesso, il gioco si complica, perché i critici giapponesi sono entrati nel merito delle scelte, dei criteri adottati, e dell’immagine della ristorazione “made in Japan” che esce dalle pagine della guida. Con una considerazione su tutte: il meglio della cucina mondiale, da una parte all’altra del pianeta è irrimediabilmente firmato francese, o “french style”.
La ribellione contro lo sciovinismo gastronomico francese serpeggia da anni anche in Italia: davvero troppo poche le stelle “pesanti” (due otre), a fronte di una ristorazione d’autore sempre più matura. Ma la Michelin è potente, cambia i numeri del fatturato, indirizza i turisti stranieri là dove andrebbero mai. E la critica aperta non aiuta certo a scalare i vertici della Rossa. Del resto, nemmeno la politica, che pure dovrebbe avere da tempo compreso l’incredibile potenziale della nostra offerta enogastronomica, ha mai alzato la voce a difesa dei suoi grandi artigiani dei fornelli. Così, al di là di Fulvio Pierangelini e Massimo Bottura, i cuochi italiani capaci di mettere in discussione le scelte della casa-madre parigina si contano sulle dita di una sola mano.
In Giappone, invece, il fascino dell’Omino Michelin non ha ancora attecchito. Personaggi pubblici, ristoratori e addetti ai lavori: tutti uniti in scia allo chef Toshiya Kadowaki, che ha annunciato di non riconoscere alla Michelin la competenza necessaria per giudicare una cucina tanto complessa e distante dalla matrice europea: “I miei piatti non hanno bisogno del permesso dei Galli per essere considerati all’altezza”. Ai contestatori della Michelin non sono bastate le rassicurazioni di Naret, che ha dichiarato di aver inserito nella task force degli ispettori - formata da cinque esperti gourmet - due giapponesi. Un anno e mezzo di lavoro e i 1.500 ristoranti visitati sono stati considerati poca cosa, a fronte del risultato.
E le polemiche sono destinate a crescere ancora, perché la Michelin ha deciso di allargare la prossima guida alle nuove capitali asiatiche del gusto. Nelle ultime settimane, gli uomini della guida sono sbarcati a Hong Kong e Macao, dove prosperano le filiali di alcuni tra le migliori firme della cucina internazionale. Pellegrinaggio d’obbligo alle cattedrali dei grandi di Francia, da Robouchon all’Hotel Lisboa, al “Pierre” di Pierre Gagnaire, all’ultimo piano del Mandarin Oriental. Un paio di
puntate ai migliori cinesi della zona, nessuna visita al “Don Alfonso”, il ristorante bistellato di
Sant’Agata che ha fatto conoscere l’eccellenza della cucina campana nel mondo, insediato nel rutilante Gran Lisboa. La lotta tra noodles e foie gras è appena cominciata.

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