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La Repubblica

Ma sono i campi la vera risorsa della biodiversità ... L’esempio degli agricoltori indiani... Usare, a proposito dei semi, la parola banca, quella che usiamo per i nostri risparmi, a garanzia del nostro futuro, può essere rassicurante, ma racchiude in sé una possibilità di fraintendimento.
Certo, è importante che esistano luoghi sicuri, adeguatamente mantenuti, in cui una nazione sia sempre sicura di trovare le varietà che per eventi imprevisti dovessero andare perdute, estinguersi in campo. Ci sono collezioni nazionali, per esempio quella italiana è a Bari e ha fatto recentemente parlare di sé, purtroppo, per i problemi legati ad una cattiva gestione dei refrigeratori che ha forse messo in pericolo il 70 per cento di quanto custodito in quella “banca dei semi”.
E ci sono collezioni internazionali, come quelle racchiuse nelle celle frigorifere dell’Istituto Vavilov in Russia, che nel 1985 potè offrire all’Etiopia devastata dalla siccità tutte le sue varietà tradizionali e lo fece nel 2000 con la Georgia e chissà quante altre volte. Ma se fosse sufficiente sistemare a meno 20°C le sementi e andarle a cercare dopo vent’anni per riseminarle, le cose sarebbero relativamente semplici, e le banche del germoplasma richiederebbero molto meno lavoro e molte meno risorse di quante invece ne richiedono per il costante rinnovamento delle collezioni.
Perché la differenza tra i lingotti d’oro e i semi è abbastanza significativa: i lingotti d’oro, da qualche millennio, hanno agli occhi degli uomini un sicuro valore e nella società una funzione stabile. La principale caratteristica dei semi, d’altro canto, è che sono organismi viventi, e per ciò stesso in evoluzione, instabili. Se uno chiude un lingotto in una stanza e riapre quella porta dopo cent’anni, il lingotto è ancora perfettamente utilizzabile. Se invece chiude un seme in una cella frigorifera a meno 20, e lo tira fuori dopo cent’anni, pur ipotizzando che in sé il seme sia ancora vitale, è quasi sicuro che non potrà più utilizzarlo. Gli agricoltori producono nelle stesse zone da cent’anni le stesse derrate. Certo, ma non con gli stessi semi. È questa la straordinaria forza di quelle che si chiamano, in termini tecnici “landraces” e in termini meno tecnici varietà tradizionali o da conservazione. Queste, a differenza delle varietà commerciali, studiate nei laboratori in funzione della loro uniformità, racchiudono al loro interno un’altissima variabilità. Ogni seme è, sia pure minimamente, diverso dall’altro, ogni pianta risultante sarà diversa dall’altra. E la varietà, nel suo complesso si adatterà nel tempo ai cambiamenti dell’ambiente in cui viene coltivata, perdendo le caratteristiche che non le servono e accentuando quelle utili.
Si chiama conservazione in situ, ovvero nei luoghi in cui avviene la coltivazione, ed è il principio base della protezione della biodiversità. La vera protezione della biodiversità non si fa nelle banche, nei musei, nei frigoriferi, ma nei campi. Funzionano così le banche del germoplasma realizzate dagli agricoltori, e per fortuna ce ne sono decine, centinaia in tutto il mondo. Nel nord dell’India, a Deradhun, gli agricoltori dell’associazione Navdanya, fondata da Vandana Shiva, ogni anno coltivano decine di varietà vegetali e ogni anno conservano una parte dei semi, sostituendo quelli vecchi, quelli che sono in qualche modo meno “aggiornati” rispetto alla vitalità del sistema da cui provengono e nel quale sono destinati a rientrare. Una realtà che da almeno vent’anni rappresenta non solo un’assicurazione sul futuro per migliaia di famiglie, ma anche lo specchio fedele della realtà produttiva di quel posto e di quel momento.
Ecco perché bisogna maneggiare con cautela la metafora delle banche. Perché i semi sono preziosi, ma se si trattano come fossero immutabili lingotti d’oro si può avere la brutta sorpresa, riaprendo i caveau, di scoprire che erano banconote e che sono finite fuori corso.

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