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La Repubblica

La produzione che fa bene all’ambiente ... Meno materia e più qualità, meno inquinamento e più incassi. Il miracolo della resurrezione del vino italiano, dopo lo scandalo dei morti per le bottiglie al metanolo che nel 1986 mise il settore in ginocchio, sta in questo doppio andamento che ha legato un successo straordinario all’attenzione al territorio e alla difesa dei vitigni tradizionali.
In 20 anni la produzione di vino è diminuita del 40 per cento in termini quantitativi, mentre sia il fatturato che l’export sono più che triplicati; i consumi pro capite sono leggermente scesi (meno 28 per cento); l’impiego di pesticidi si è notevolmente ridotto (meno 68 per cento).
“Il recupero dei vitigni tipici è un elemento importante di questo percorso di crescita perché difende la varietà e argina i danni prodotti dalla ricerca esasperata della purezza dei cloni”, osserva Sandro Sangiorgi, il direttore della rivista “Porthos”.
“Senza questa correzione di rotta avremmo rischiato uno scenario simile a quello che si è prodotto, nel campo dell’allevamento dei pastori tedeschi, incrociando sempre le stesse linee di sangue: alla fine i cuccioli non riuscivano più a muovere le zampe posteriori. Per il vino, ovviamente, il problema è diverso ma l’invadenza dello chardonnay nell’alta Padania ha mostrato la misura del rischio: indebolimento delle vigne, aumento degli attacchi crittogamici, minore resistenza all’assalto dei batteri. La monocoltura fiacca le difese naturali e spinge ad aumentare l’uso dei prodotti chimici”.
Secondo Sangiorgi bisogna puntare realmente - e non solo in termini di marketing - sulla biodiversità, sui vitigni tipici e sulla coltivazione biologica e biodinamica perché lì è il futuro del vino. Dello stesso avviso è anche Giampiero Maracchi, responsabile dell’Istituto di biometeorologia del Cnr di Firenze, che cita Bartolomeo Bimbi, lo scienziato pittore che alla fine del Seicento, su indicazione dei Medici, tracciò sulla tela la mappa dei vitigni esistenti indicando i nomi di 75 varietà di uva presenti nel granducato di Toscana.
“Una parte di questo patrimonio si è persa, ma il resto va difeso anche perché ci tornerà utile”, prevede Maracchi. “Con i cambiamenti climatici in corso, andremo incontro a periodi di siccità sempre più marcati e dunque lo spazio per i vini calibrati sulle piogge del centro Europa diminuirà, mentre i vitigni tipici, abituati da sempre a convivere con la carenza di acqua, si riveleranno preziosi con le loro radici che pescano fino a oltre 20 metri di profondità”.

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