La Repubblica

Quando l’uva è global ... Il punto... Niente di nuovo, niente di sorprendente. Per primi si erano mossi i winemaker superstar, come Michel Rolland, nella corsa a insegnare ai paesi nuovi produttori come sviluppare le proprie potenzialità e fare vini “internazionali”. Direzione, innanzitutto, America del Sud (Cile e Argentina), Sudafrica e ultimamente i paesi dell’Est europeo a vocazione vitivinicola. Poi, com’era prevedibile, si sono mossi i capitali e le aziende. Destinazione prima la California, dove le grandi marche di Champagne si erano installate negli anni ‘80 e avevano aperto la strada anche a vere e proprie joint venture con obiettivi molto ambiziosi: Opus One, creata da Mondavi e Rothschild, è stata e resta il simbolo più alto e di maggior successo.
E non è un caso che si dimostrino più attivi e attenti alle opportunità offerte dalla globalizzazione da un lato i produttori di Champagne e dall’altro i bordolesi: nel mondo del vino, i soli che in larga misura sono controllati da grandi gruppi finanziari, che elaborano strategie e muovono ingenti investimenti attratti dalla possibilità di fare vini tecnicamente più che corretti, a costi inferiori sia dei terreni sia del lavoro, da destinare ai nuovi mercati e ai nuovi consumatori. Ma il fenomeno non è affatto nuovo e ha già visto protagoniste a anche aziende italiane di prim’ordine: Gianni Zonin, per esempio, detiene da molti anni una bellissima azienda medio-piccola a Barboursville, in Virginia, che produce esclusivamente per il mercato americano. Non solo la commercializzazione ma anche la produzione del vino, insomma, non si sottraggono alla logica del mercato globale. E si può scommettere che il continente asiatico, India in primis, diventerà presto il terreno di nuove iniziative.