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Allegrini 2024

La Repubblica

I mistero del bicchiere nero ... Amo la cucina da sempre. Sono cresciuto in una famiglia lucana, ultimo di sette figli: come dire, tanto lavoro, nessun lusso, ma anche sorrisi, calore, unione. Per mantenerci agli studi, mio padre faceva l’operaio di giorno e il muratore di sera, mentre mia mamma lavorava come bidella. è sempre stata una cuoca coi fiocchi: sono cresciuto tra gli odori e le magie delle padelle. Da lì a scegliere la scuola d’arte alberghiera è stato un attimo. La cosa buffa è che mi sono innamorato del vino nei giorni in cui vincevo il titolo di “miglior allievo cuoco d’Europa”. Nel viaggio verso la sede del concorso, in Sicilia, i racconti sul vino del nostro insegnante di enologia, Giuseppe Vaccarini, mi hanno aperto le porte di un mondo complesso e straordinario. La parola “equilibrio” negli abbinamenti è diventata la mia bussola. Non mi sono più fermato: a vent’anni, miglior sommelier italiano, a ventidue campione europeo. E nel 2004 il sogno più grande, miglior sommelier del mondo, titolo che ancora conservo. Racconto tutto questo per spiegare come a trent’anni - dopo il “Grand Hotel” di Stoccolma, il mitico “Troisgros” di Roanne, e il “Four Season” di Parigi, ho deciso di mettere il vino al centro della proposta gastronomica, aprendo due wine restaurant - a Parigi, e Courchevel, Alta Savoia - dove l’abbinamento vino-cibo è vissuto dalla parte delle bottiglie. Nella ristorazione generale, di solito i clienti scelgono tra bianchi e rossi, fermi e frizzanti, al massimo danno preferenze di zone vitivinicole o tipologie d’uva. Sulla base di queste poche indicazioni, il sommelier consiglia dei vini. Il passaggio successivo, quello di cambiare vino a ogni piatto, è merce rara. Io faccio il contrario. Seduti ai tavoli di “Il Vino d’Enrico Bernardo”, i clienti consultano solo una lista di vini internazionali al bicchiere, che cambia tutte le settimane. A ogni bicchiere, corrisponde un piatto, che però non viene rivelato, se non al momento dell’arrivo in tavola. Altra opzione molto apprezzata il menù à l’aveugle, alla cieca, con i vini serviti in bicchieri neri... la magia è assicurata! Naturalmente, questo approccio richiede molto lavoro di formazione. Oltre a modellare i singoli menù in base a intolleranze e fastidi alimentari, i sommelier devono saper spiegare che non c’è nessuno stress, nessuna gara, ma solo il piacere di capovolgere per una volta il percorso a senso unico del vino al servizio della cucina.Anche la Michelin lo ha capito e dopo appena un anno di attività ci ha premiato con la stella! Per rendere godibile al massimo questo divertissement, faccio in modo che la proposta gastronomica sia molto “leggibile”, senza contorsioni e stramberie. Lo chef sa che un menù alla cieca va calibrato, così da risultare sorprendente e lieve: personalmente, questa corsa a estremizzare per differenziarsi non mi piace granché, anche se, viaggiando tanto, conosco e apprezzo gli abbinamenti derivati da altre culture gastronomiche, che mettono a tavola tè, sakè, infusioni. Diciamo che in Europa non sentiamo questa necessità. Mi riempie il cuore vedere i clienti entrare nel meccanismo del gioco, immaginando il piatto dopo aver scelto e sorseggiato il vino. In fondo - penso - è un po’come quando si cena da amici: non si sa cosa arriverà in tavola, ma l’elemento sorpresa fa parte del piacere della serata... Non sapendo cosa prevede il menù, la cosa migliore per gli invitati è portare una bottiglia di Champagne: è più versatile di bianchi e rossi, ha complessità olfattiva, freschezza, effervescenza, qualità che lo rendono molto moderno, soprattutto a confronto con una cucina che ormai non ha più grandi succulenze, né contrasti di consistenze, ma privilegia freschezza e aromaticità. A patto, naturalmente, di non berlo con il dessert.

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