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La Repubblica

Bello, buono, sano. E vicino a casa ... Intanto per sgombrare subito il campo da fraintendimenti, diciamo
pure che chi pensa che sia possibile un’Italia autarchica (o che lo possa essere un qualsiasi altro paese) non ha tutte le rotelle a posto.
Non ci sono le condizioni per una vita florida e per un sufficiente benessere con i soli prodotti del territorio, per di più in un mondo urbanizzato a metà. Del resto non si vede neppure il motivo per cui sia il caso di rifiutare tout court i vantaggi delle tecnologie, che ci permettono di scambiare prodotti e informazioni come mai è successo prima nella storia dell’uomo.
Ma rigettare l’autarchia come panacea dei mali moderni non significa neanche negare il ruolo dell’agricoltura e delle economie di territorio. Oppure il valore delle dinamiche socio-culturali e produttive a livello locale, in un mondo che corre ancora troppo veloce, in preda a una vertigine globalizzatrice che sembra non avere limiti.

Paesi che rivendicano di essere al top dell’evoluzione umana, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, hanno pensato che potessero esistere società senza contadini, in cui l’agricoltura fosse un optional o un settore da tollerare con pazienza a colpi di sovvenzioni, visto che nel frattempo ci si era trovati a disposizione un supermarket globale. Anche noi accarezziamo l’idea di essere principalmente un paese abile nella trasformazione, per cui sarebbe sufficiente servirci di materie prime dai paesi poveri e mostrare tutta la nostra classe made in Italy nell’elaborarle.
Ma tra i due opposti, l’autarchia da una parte e la completa assenza di agricoltura dall’altra, c’è uno spazio enorme: lo spazio del buon senso. E il luogo dove troviamo elementi che rispondono a parole come identità, cultura, patrimonio, paesaggio, memoria, tradizione, biodiversità, sostenibilità e umanità. Non considerarlo, non cercare al suo interno spunti creativi, non difenderlo dall’omologazione che tende a cancellarlo, è da pazzi scriteriati.
Chi vorrebbe l’autarchia fa lo stesso pazzo errore di coloro che hanno teorizzato e costruito un sistema agro-alimentare industriale e globale, all’interno del quale lo sporcarsi le mani è demandato ai poveri in angoli lontani, in cui la bellezza del paesaggio è riservata alle oasi protette tra orde di obbrobri architettonici, e i terreni devono essere vocati alla cementificazione selvaggia; dove le stagioni non esistono e non c’è nessun rispetto per la Terra.
Queste persone guardano a un campo di grano duro e pensano unicamente alla misura del suo valore economico; si fanno venire l’ansia perché pensano a quanto grano duro manca ancora per soddisfare il bisogno nazionale pro-capite di pasta. In un campo di grano non ci vedono la bellezza, la perizia con cui è stato coltivato senza fertilizzanti e pesticidi di sintesi, la qualità di quel grano particolare che darà una pasta più buona. O
ancora: la cultura agricola che lo ha fatto crescere, il lavoro di alcuni uomini, la loro identità. Non pensano a quante emissioni di
Co2 in
meno
genererà la sua vicinanza relativa a dove verrà tra
sformato.
Credo che al di là di ogni surreale tentazione autarchica il mantenimento del settore primario e della sua salute siano dei doveri cui non si può sfuggire. Secondo l’Istat, in Italia negli ultimi quindici anni sono
stati erosi tre milioni e 663mila ettari di aree verdi (una superficie pari all’incirca a Lazio e Abruzzo): preservare i suoli e la
loro fertilità dall’invasione del cemento non significa fare richiami al
“bel tempo che fu” in maniera ottusa.
Il mondo del vino italiano ci ha insegnato che realizzare economie agricole sane e ricche, forti di tanti valori aggiunti, è possibile e preferibile. Non
vedo perché ciò non si possa materializzare anche per altre produzioni alimentari, che magari non avranno l’appeal del vino, ma sicuramente possono vantare la possibilità di essere buone, fresche, salutari, fatte in contesti belli, produttivi e ecologicamente impeccabii. Queste economie agricole, se praticate e vissute soprattutto a livello locale, sfruttando filiere corte più remunerative, convenienti e sostenibili (agricoltura di prossimità, non autarchia), creano grande valore e benessere. E il valore di riuscire a ridurre le emissioni, di continuare a produrre e godere del cibo migliore, odi instaurare innovativi rapporti tra contado e città, in cui nessuno si senta isolato anche se si fa riferimento soprattutto al proprio tenitorio. E il piacere di guardare ancora com’è il cielo la mattina, prima di accendere il cellulare.
Bisogna puntare su questo tipo di economia se vogliamo sperare in un’Italia ancora bella, che non dipenda troppo dagli altri, ma che con gli altri si sappia rapportare in virtù dell’intelligenza che l’ha sempre contraddistinta.

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