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La Repubblica

Dallo sfuso al wine maker e ritorno. La bottiglia del futuro ha un cuore antico ... Per chi ha vissuto il rinascimento enologico degli anni Ottanta, il cosiddetto vino del contadino ha assunto un’accezione per lo più negativa, sinonimo di pressappochismo e poca cura per i fattori qualitativi. A voler ripercorrere un po’ la storia, il mondo del vino per decenni è stato dominato dallo sfuso e da prodotti realizzati sì con naturalità (peraltro non sempre...), ma senza le accortezze necessarie a evitare difetti anche evidenti. Poi, ci è capitato di cominciare ad assaggiare i vini di qualche pioniere che, superati i confini, si spingeva fino in Francia e scopriva un ambiente produttivo molto più progredito rispetto al nostro. E stata la rivoluzione: in pochi lustri le cantine italiane hanno adottato conoscenze, tecniche e macchine che hanno contribuito a far crescere in maniera esponenziale la qualità dei nostri vini. Si è messo in moto un meccanismo virtuoso, capace di far crescere nuove economie dal nulla, o quasi. Sono nate figure sociali di cui nessuno aveva mai sentito parlare, come l’enologo o wine maker, il comunicatore o addetto alle public relations. La tecnologia è arrivata quasi a prendere il sopravvento e i consulenti si sono trasformati in druidi in grado di plasmare la fisionomia stessa di un vino. Insomma, si è arrivati al punto di sacrificare il territorio e il campo a beneficio di una nuova visione che puntava l’attenzione più sui tecnicismi che sulla parte agricola. Anche la natura stata talora piegata ai desideri di certi viticoltori: con le escavatrici si sono cambiati i profili delle colline, l’utilizzo massiccio di fitofarmacie di concimi chimici ha sterilizzato il suolo, per non parlare dell’affermazione della monocultura in alcune zone colpite da eccessivo sviluppo enoico. Per finire, siamo entrati nel tunnel della standardizzazione: spesso è impossibile riconoscere vini che nascono a centinaia di chilometri di distanza. Oggi finalmente, come scossi da un lampo che ci fa aprire gli occhi, ci siamo accorti della deriva a cui era destinato tutto il settore. Esiste un limite che non va mai oltrepassato, che bisogna governare e metabolizzare. Certo, è meglio non esasperare i concetti, perché alla fine si cade nell’errore opposto: non amavamo il vino del contadino in passato, per tutti i difetti e gli anacronismi che si era cucito addosso, ma l’evoluzione tecnicistica che è seguita è stata altrettanto perniciosa. Ora molti vignaioli avveduti hanno deciso di intraprendere una strada che non è un semplice ritorno alle origini e che non si tratta neppure di etichettare per forza con termini molto specifici, come biologico o biodinamico. Semplicemente, è una strada che punta a un maggior rispetto dell’ambiente, della storia e delle esperienze ereditate. Ritengo che in questi concetti si debba trovare un equilibrio, una sorta di terza via . Una via che ponga le sue basi nelle conoscenze acquisite negli anni, nelle tradizioni virtuose dei padri, nelle pratiche finalmente sostenibili: per arrivare a bere il vino contadino del nuovo millennio.

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