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La Repubblica

Pietà, non cenate col bagnoschiuma ... Quasi tutti i cocktail e i long-drink (il maccheronico “beverone” rende bene l’idea) sono stati inventati dai coloni europei, specie inglesi, pur di avere anche ai Tropici il pretesto per continuare a sbronzarsi come nelle fredde terre d’origine. L’origine meticcia di quelle bevande, disinvolte misture tra le micidiali acquaviti imperialiste e i succhi zuccherosi dei paesi caldi, ce le rende simpatiche, purché nel loro contesto: l’ozioso palmizio, il resort ombroso, la terrazza in favore di tramonto, perfino il baretto di qualche pretesa che nel cuore di una metropoli fuligginosa inscena un tropicalismo da vitelloni di quartiere. (Negli anni, il giovane “bauscia” milanese che sorseggiava il gin-fizz o il cubalibre è passato al mojito, ma sempre nel quadro della stessa simulazione: sentirsi a Ibiza essendo a Porta Romana).
Proverbiale poi in ogni bar, e sostanzialmente immutato negli anni, è il viveur che di ogni cocktail conosce i “veri” ingredienti, specialmente quelli segreti, e corregge il barman, e si vanta con gli avventori, perché è chiaro che la sua conoscenza raffinata di quel le bevande lussuriose allude a una conoscenza impareggiabile della vita e delle donne.
Il cocktail ha dunque il suo contesto, che è sostanzialmente balistico, colorato e vaniloquente, aperitivo e leggero. Si giustifica tra ghiaccio tritato e ombrellini di carta, olive e noccioline. L’idea che possa evadere da quella sede futile e colonizzare anche i pasti, magari spodestando il vino, poteva giusto venire in mente a gente futile e soprattutto confusa: che non ha ben chiara la scansione del tempo, il metabolismo della giornata. Ci sono momenti in cui i sapori devono essere pochi e solidi. Momenti in cui la vita si addensa, anche dal punto di vista conviviale, ci si siede e si interrompono la movida, il chiacchiericcio, la leggerezza programmatica. L’idea di un beverone multicolore in mezzo a una tavola italiana - di fianco al pane e all’olio, voglio dire, dunque di fianco al sacro - è piuttosto insopportabile. Perché i circensi non sono il pane, e il cocktail fa parte dello svago, non della cultura, del superfluo e non del sostanziale.

La trinità pane-olio-vino, per un latino, non è uno scherzo. La tavola, qui da noi, è importante anche perché allude alla religione (o magari è la religione, con l’eucaristia, che allude al cibo). Al pari dei panini-show con dodici ingredienti, che non sanno di niente perché sanno di tutto, i cocktail sono giochi, non cibo. Mischioni colorati resi quasi indistinguibili dalla temperatura polare, gradevoli come un bagnoschiuma d’albergo quando uno si vuole rilassare. L’idea che la generazione dell’happy-hour e della movida possa e voglia davvero invadere anche i pasti con i long-drink significa, semplicemente, che vuole abolire i pasti come momenti differenti, come luoghi sociali a sé stanti. Che vuole giocare a oltranza, giocare e nient’altro. E vuole inglobare tutto, notte e giorno, nella eterna dimensione ludica e leggera in cui vive: ghiaccio tritato ovunque, niente di sostanzioso che pesi e rimanga, niente che richieda la pazienza di una sosta. Un vino può sostare anche per mezzo secolo dentro la sua bottiglia. Un cocktail in venti secondi è già nato e morto. E dimenticato.

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