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La Repubblica

La nostra salute e il supermarket ... Le preoccupazioni del mondo agroalimentare... A Bankok, aprendo l’incontro dei delegati dei governi sui cambiamenti climatici, a seguito alla conferenza Onu, il primo ministro tailandese Abhisit Vejjajiva ha detto che il summit di New York “è stato capace di rinnovare il nostro impegno collettivo sulla questione dei cambiamenti climatici ai più alti livelli”. Traduzione: non è uscita una sola proposta concreta. Ma per chi avesse qualche dubbio ha aggiunto: “Non c’è un piano B. Se non realizziamo il piano A, andremo dritti verso il piano F, come Fallimento”. Il mondo dell’agroalimentare guarda con duplice preoccupazione a queste tematiche e a queste prospettive. Da un lato l’agricoltura industriale viene individuata, giustamente, come una delle maggiori responsabili delle emissioni di CO2, a causa di un sistema produttivo cosiddetto lineare in cui non è possibile convertire gli output (ovvero gli scarti di lavorazione) in input (ovvero in energia utile a fasi ulteriori). C’è un solo obiettivo: il mercato, e dunque non c’è attenzione per quel che succede tra la produzione delle materie prime e la vendita dei prodotti. Il percorso tra una grande piantagione di patate e il frigo del supermercato in cui la busta di patate già affettate e congelate è a disposizione del consumatore, è lastricato di input chimici ed energetici, di tempi contratti, di spazzatura che nessuno riutiizza. Dalla produzione del fertilizzante sintetico alla benzina che il consumatore usa per raggiungere l’ipermercato che ha cementificato terreno agricolo, le occasioni per emettere CO2 sono innumerevoli. Se invece di parlare di prodotti della terra, poi parliamo di allevamento, la situazione si fa ancora più devastante: sono proprio i grandi allevamenti che concentrano migliaia di capi suini o bovini il principale accusato, circa il 20 per cento delle emissioni totali di metano del pianeta è opera di questi allevamenti, e se ci limitiamo a considerare le emissioni di origine antropica (cioè generate da attività dell’uomo) la percentuale arriva addirittura al 40 per cento. Ma la parola chiave non è l’agricoltura, ma l’aggettivo che indica le dimensioni di queste produzioni: grandi piantagioni, grandi allevamenti. Non bisogna cercare un’alternativa alla produzione di cibo. Bisogna cercare un modello differente di produzione, ragionare sulla scala, non sull’attività in sé. E qui viene il secondo motivo di preoccupazione. Come ha chiarito bene il movimento di Via Campesina in un documento del 2007, mentre l’agricoltura massiva e i paesi industrializzati si collocano tra i principali produttori di gas serra, “sono i contadini di piccola scala, le aziende a conduzione familiare e le comunità rurali, e in particolare quelli del paesi in via di sviluppo quelli che per primi fanno le spese dei cambiamenti climatici”. L’alterazione dei cicli climatici porta con sé fitopatologie sconosciute, siccità, inondazioni, che distruggono le coltivazioni, la terra e le case dei contadini e delle comunità rurali. Occorre un ripensamento dell’agroalimentare in termini di piccola scala e di consumo locale. Solo questo tipo di agricoltura “raffredda il pianeta”, per citare ancora Via Campesina, perché ha tra i suoi principali obiettivi il mantenimento della fertilità dei suoli e la cura della salute del pianeta, oltre al mercato. Occorre trasformare l’agricoltura da colpevole del problema ad alleata nella soluzione. Per far questo le politiche alimentari del pianeta si orientino alla sostenibilità; ricordando che politiche alimentari significa molto di più di “politiche agricole”. Significa politiche economiche, educative, della salute e dell’ambiente... Significa la Politica.

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