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La Repubblica

La rivoluzione del cibo ... Perché i vecchi saperi contadini possono portarci nel futuro... Le antiche culture alimentari non sono un gradino sotto la scienza accademica o la ricerca finanziata dai privati. Né sono immobili nel tempo. Il nuovo libro di Carlo Petrini...

Anticipiamo un brano da “Terra madre. Come non farci mangiare dal cibo”, il nuovo libro di Carlo Petrini che esce in questi giorni (Giunti, pagg. 173, euro 12).

Se vogliamo iniziare a ragionare di cibo con buon senso, senza preconcetti e tentare in qualche modo di correggere il sistema globale industriale dell’agroalimentare, dobbiamo assolutamente sfatare un luogo comune: il rifiuto a priori del passato e di tutto quello che sa di passato. Così come le economie delle comunità sono considerate marginali e la ricerca del piacere alimentare una cosa elitaria, anche la tradizione, i sapeni antichi, gli stili di vita più sobri sono investiti da un radicato pregiudizio e vengono puntualmente bollati come nostalgici e fuori dalla realtà. Questo fa sì che si liquidino come superati secoli di cultura popolare e che dunque gran parte del sapere proprio delle comunità del cibo - o quanto meno le sue origini - non sia nemmeno preso in considerazione. È paradossale che la maggioranza delle persone riconosca la superiorità - anche se magari la ritiene una prerogativa elitaria - di molti prodotti tradizionali, artigianali, tratti da ingredienti freschi e di stagione, prodotti e consumati localmente, ma poi non riconosca il valore importante delle culture e delle competenze che li hanno creati. Quasi a dire: “Sì, sono più buoni, ma sono fuori dal mondo, non esistono più se non in piccole nicchie, tanto vale mangiare peggio”. Non credo che sia il caso di rinunciare così, senza chiedersi se ci sono alternative percorribili. Siamo convinti che proprio su questi saperi le comunità fonderanno il loro ruolo di protagoniste della terza rivoluzione industriale. Non è provocazione, ma consapevolezza che se il mondo chiede energie pulite, produzioni sostenibili, riuso e riciclo, abbattimento dello spreco, allungamento della durabilità dei beni, cibo salutare, fresco e di qualità, le comunità del cibo non solo sono già in linea, ma sono anzi all’avanguardia. Sia per le tecniche utilizzate, ma ancora di più per la mentalità che le supporta.
Infatti è logico che non sia possibile replicare ovunque i loro metodi, fondati magari su tecnologie molto limitate. È normale che questi aspetti della loro esistenza non siano esportabili ovunque - anche se in alcuni casi non è impossibile - perché sono figli di un adattamento locale e nel locale funzionano benissimo. È invece fondamentale studiarne la sistematicità, intesa come armonizzazione in un sistema complesso e comprenderne i motivi. Non si può continuare a considerare i saperi tradizionali e popolari un gradino sotto a quelli della scienza che esce dalle università o dalla ricerca finanziata dal privati. Hanno invece la stessa dignità; il savoir faire contadino è figlio di un’esperienza secolare e poco importa che la sua praticità sia dimostrata o dimostrabile scientificamente. Così come sarebbe altrettanto sbagliato auspicare una supremazia di queste conoscenze, che ho definito saperi lenti; bisogna che si instauri un dialogo dove i pregiudizi vengono messi da parte, dove la ricerca sia anche al loro servizio e dove ricerca e scienza collaborino sullo stesso piano paritario. Alla tradizione spesso è associato anche l’errore di vederla come una dimensione immobile, che appartiene al passato. Persino chi la richiama, la racconta e la onora, spesso rischia di fare lo sbaglio di viverla come un unicum che non evolve, che si è interrotto a un certo punto. Questa è una visione che finisce per separarci dalle nostre radici, che ci toglie la memoria di quello che eravamo, della storia dei nostri popoli. Questo le comunità lo sanno bene, per loro la tradizione non è un ripetersi monotono di gesti, riti e produzioni. Sono aperte alle novità e a tutto quello che nel solco della tradizione le può far progredire, sanno che è vera quella frase (di cui un po’ si abusa) che vuole la tradizione come “un’innovazione ben riuscita” e la mettono in pratica. Non abbandonano il vecchio per il nuovo, inseriscono piuttosto il nuovo nel sistema complesso che ha forgiato la loro identità. Sanno da dove provengono e hanno abbastanza chiari quali sono i loro obiettivi. Non dobbiamo decidere se sia meglio la tradizione o il progresso, il passato o il futuro, ma rifiutare generalizzazioni, riduzionismi e la separazione di questi concetti, la loro contrapposizione. Le comunità sono per la continuità della tradizione, la tengono a cuore e custodiscono la loro memoria proprio perché dà loro identità in un mondo che tende all’omologazione, ma sanno bene che commetterebbero un grave errore se non volessero approfittare dei mezzi che la globalizzazione e la tecnologia offrono loro. Vogliono soltanto poterlo fare in maniera responsabile, con buon senso. Vogliono mangiare e non essere mangiati.

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