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La Repubblica

C’era una volta il “cliente” ... Dalla parsimonia agli acquisti inutili ... Com’era il mondo, prima dello shopping? Prima dello shopping, quasi tutto era uguale. C’erano i negozi e c’erano i clienti. C’erano i ricchi che potevano permettersi di spendere tanto, i poveri che erano costretti a spendere poco. C’era il richiamo delle vetrine, c’era lo struscio nelle vie commerciali, c’erano gli sconti, le occasioni, i saldi. Solo una cosa era diversa. Radicalmente diversa. “Ideologicamente” diversa. Acquistare (“fare le compere”,come si diceva) era un mezzo e non un fine. Si usciva di casa e si entrava in un negozio apposta per comperare una determinata cosa, spesso solo quella. Se si era ragazzini, coni soldi contati: “Queste sono cinquecento lire, scendi a comperare il latte e sei uova e portami le ottanta lire di resto”. Non si era ancora affermato il concetto che comperare fosse un gesto che aveva valore in sé. Non più un mero atto strumentale, conseguenza dei bisogni (il latte, sei uova o quant’altro)Ma un gesto - come si dice oggi - identitario. Un bisogno in sé, il bisogno di comperare. La ragione sociale del consumatore.
Nella via centrale di Milano dove sono cresciuto, negli anni Sessanta, c’erano la latteria, la drogheria, la salumeria, la panetteria, il fiorista. Ne ricordo ancora la disposizione, i gestori, gli odori, gli scaffali. Oggi tutti quei microcosmi, con le rispettive funzioni, sono stati assorbiti dal macrocosmo degli ipermercati e dei centri commerciali. Che non sono solo la somma di quei negozi, sono molto di più. Sono l’expo permanente del nostro potere d’acquisto, luoghi nei quali è quasi impossibile entrare guidati da un bisogno specifico, circoscritto e pregresso. Prima si entra, poi si capisce “che cosa ci serve”, e il carrello si riempie,l’appetito ingigantisce, i bisogni si creano e si moltiplicano.
Nel rimpianto della vecchia struttura (così italiana) della distribuzione commerciale, i negozi di quartiere e le botteghe, sicuramente c’è una percentuale di passatismo, di nostalgia pavloviana per tutto quanto riguarda la nostra infanzia e giovinezza. Ma c’è anche il sospetto che quel genere di struttura fosse più congeniale a una cultura dei bisogni più sobria, più ragionevole e soprattutto più controllabile. E vero che la grande distribuzione consente prezzi più bassi: ma la quantità di ciò che mettiamo nel carrello, quasi sempre eccedente le nostre intenzioni di partenza, contraddice in sé l’idea del risparmio. Per quantità, l’impero delle merci si riprende (con gli interessi) quanto ci illudiamo di risparmiare perché i prezzi sono più bassi. Simbolo epocale di questo processo compulsivo è il meritatamente famoso “prendi tre paghi due”. Perché devo prendere tre e pagare due, se avevo bisogno soltanto di uno?
I soldi contati con i quali le nostre madri ci facevano uscire di casa, destinati al negozio d’angolo con una lista inequivocabilmente breve, non erano solo un segno di lesina, di minore benessere. Dimostravano che il cliente (non ancora retrocesso a “consumatore”) aveva ancora il coltello dalla parte del manico. Quelle spese veloci, con gli spiccioli contati, e in generale i pochi soldi che si avevano in tasca, non mi fanno pensare a penuria o astinenza da alcunché. Mi fanno pensare, piuttosto, che l’epoca successiva, quella dei consumi compulsivi, ha reso meno godibile l’attimo (importante) dell’acquisto, la soddisfazione di quel bisogno, l’attesa di quell’oggetto, di quel cibo, di quel vestito. Tutto ci ruota attorno, febbrile, come una caotica galassia dentro la quale tutto è disponibile ma niente è importante, tutto è necessario ma niente è una scelta.

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