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La Repubblica

Next natura artificiale ... Nella nuova fattoria ... Nel deserto dell’Arizona, sotto la luce artificiale di una lampada a led, un seme sta per germogliare. Il momento è vicino e gli agricoltori, che sperano in un ottimo raccolto, decidono cli avvicinare le luci alle radici perché la terra sia più calda. Non hanno piantato pomodori, meloni o mais: non avevano né spazio né tempo. Hanno preferito ravanelli, lattuga, cavolo cinese e verdure a foglia verde. Ortaggi adatti a crescere velocemente e ovunque, persino su Marte. Sì, perché i contadini dell’Arizona, che seminano e raccolgono in un ambiente sterile e a gravità ridotta, sono scienziati della Nasa impegnati a sviluppare il prototipo di una serra per coltivare ortaggi in orbita e fornire cibo fresco agli astronauti. Lavorano alle “fattorie spaziali” che germoglieranno sulla Stazione spaziale internazionale, a quattrocento chilometri dalla Terra, nei laboratori dove già hanno messo radici girasoli e zucchine.
Ma l’agricoltura del futuro non guarda solo allo spazio. A volte le basta sfiorare il de. lo. Si pensi alla fattoria verticale, un’idea che trova consensi nonostante lo scetticismo di chi teme gli alti consumi energetici di un grattacielo destinato alla produzione di cereali e ortaggi. In Italia l’Enea ha progettato Skyland, un eco-edificio di trenta piani in grado di coltivare prodotti biologici per 25mila persone. Per ora non ci sono finanziamenti, ma in futuro chissà. E già capitato che dalla carta si sia passati al- la realtà: in Corea del Sud, in Olanda o in Giappone, dove è nata Nuvege, una vertical farm di 57mila metri quadrati. Dickson Despommier, portavoce dell’agricoltura verticale, sostiene che stiamo entrando nella fase dello sviluppo industriale. Una buona notizia per chi come lui si pone il problema del 2050, quando la domanda globale di cibo raddoppierà: “Se non troviamo una soluzione, tre miliardi cli persone soffriranno la fame e il mondo diventerà un posto molto più sgradevole”. Mentre ci si interroga sui modelli di sviluppo sostenibile e le multinazionali occidentali, così come i governi più spregiudicati, fanno razzia di terra nel sud del mondo, un’altra rivoluzione avanza in silenzio. Lo dimostrano i pomodori che in Germania vengono riscaldati con il calore di scarto delle centrali nucleari o le mele che in Inghilterra crescono su alberi-nani per risparmiare acqua e terra. La fotografa Freya Najade, che con il progetto “Fragole d’inverno” sta documentando le coltivazioni europee più all’avanguardia, si dice affascinata da come l’uomo cerchi costantemente di superare i limiti imposti dalla natura: “Giorno e notte, estate e inverno, località geografiche sono concetti che stanno diventando irrilevanti per l’agricoltura”. Lo si vede in California, dove i vitigni arrivati nel 1800 da Bordeaux si adattano a una terra e a un sole molto diversi da quelli francesi. Tra i filari spuntano termometrie sensori piantati da due giovani ricercatori, Thibaut Scholasch e Sébastien Payen. Mostrano con precisione millimetrica cose come il livello di idratazione di una pianta, il contenuto degli zuccheri cli un acino o l’umidità del suolo e permettono di programmare gli impianti, gli orari di irrigazione e i giorni della raccolta. Un cambio di marcia decisivo se si pensa che più di tre quarti degli agricoltori americani decidono quando innaffiare in base a come una foglia si accartoccia al sole. Eppure, come sempre quando la tecnologia invade il regno dell’intuizione, molti viticoltori storcono il naso: da generazioni si basano sull’osservazione e l’istinto, perché cambiare ora? Secondo Wired America, che ai due nerd del vino ha dedicato un servizio di sei pagine, per un motivo molto semplice: conviene. Si risparmia acqua, si controlla il livello di alcol negli acini e si anticipano le vendemmie. “La gente pensa che il regno vegetale si comporti come noi”, ha spiegato Scholasch. “Ma le piante non sono progettate per raccontare all’occhio umano di cosa hanno bisogno”. Meglio ricorrere all’agricoltura di precisione, dalle macchine che variano la densità di semina a quelle che ottimizzano la distribuzione dei fertilizzanti e dei concimi, dai computer di bordo al telerilevamento satellitare.
Non tutti però sognano lo stesso futuro. Se da una parte c’è chi si ti- volge alla tecnologia, dall’altro c’è chi crede che la natura abbia già tutte le risposte. E il caso di quanti scelgono la permacultura, una disciplina nata dalle osservazioni di Bill Mollison e David Holmgren. I due naturalisti già trent’anni fa si erano chiesti come facesse un bosco a restare fertile senza l’intervento dell’uomo. Perché in agricoltura questo non era possibile? Perché condizionare la terra con concimi, diserbanti e tanta fatica? L’alternativa esiste come dimostra un filmato girato per la Bbc dalla documentarista Rebecca Hosking. Si chiama A farm for the future e propone una agricoltura verticale, ma senza luci al led, una scelta accurata di piante e animali, ma senza l’uso di sensori, computer cli bordo e sistemi satellitari. Propone cose come il forest-garden (giardino foresta o bosco coltivato) sul modello di quello di Martin Crawford, pioniere inglese della permacultura Contiene più di 550 specie di piante, ognuna scelta per assolvere a una funzione: riequilibrare i livelli di azoto, mantenere il terreno fertile, attirare insetti che si nutrono di parassiti, proteggere la terra dalle piogge invernali e ovviamente produrre cibo con un intervento dell’uomo estremamente limitato. Crawford sostiene che nel suo bosco è sufficiente lavorare un giorno a settimana. E la produzione di cibo? “Se il forest-garden è progettato con la massima efficienza”, spiega nel documentario, “con un acro di terra si può provvedere al fabbisogno di dieci persone”. Più del doppio della vecchia agricoltura contadina e senza andare nello spazio.

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