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La Repubblica

“Lu mieru” che mi fece uomo ... Fu nella cantina dello ziu Antonio, a Sava, che avvenne la mia iniziazione al Primitivo. Avevo otto o nove anni: a quel tempo, nessuna regola di correttezza politico/alimentare vietava di organizzare una bevutina pi lu uagnone. Era, anzi, il modo festoso per accoglierti in una comunità maschile che onorava lu mieru (il vino, in dialetto) con gaia, e molto laica, dedizione. Mamme e zie, di solito occhiute custodi della virtù infantile, chiudevano un occhio: un goccetto non ha mai ucciso nessuno, purché non diventi un’abitudine. La cantina era ovviamente umida e scivolosa, a malapena rischiarata da una fioca lampadina a filo. Il vino era di tre tipi: bianco, pi li signurine, amabile, per il dessert, e Primitivo. Riservato, quest’ultimo, agli uomini veri. Lo zio sollevò il grosso tappo di sughero che sigillava una giara dai morbidi fianchi femminei e cicalò dentro un minuscolo bicchiere. Poi me lo consegnò e io, con le orecchie rosse dall’emozione, l’accostai alle labbra. L’odore era aspro e penetrante. Dava il capogiro. Sul quel Primitivo circolavano leggende. Era Malvasia. Quello di certe annate ce ti nifaci di la sciampagna, che te ne fai dello champagne. Calavano i mercanti piemontesi, e se lo compravano che era ancorauva, perché nu mieru così i signori del Nord se lo sognano. Era Ambrosia. Bevvi. Il liquido scese rapido. Bruciava e raspava. Riuscii a non tossire. Intorno a me gli adulti si scambiavano sorrisi compiaciuti. Arrivarono pacche sulla schiena. Avevo superato la prova di virilità. Quando mi dicono, oggi, Primitivo, parlano di un altro vino. Un vino ancora robusto, ma ingentilito da mani sapienti che l’hanno saputo arricchire di aromi e di uno sfavillante retrogusto un tempo impensabile. Un brand internazionale che fa onore alla Puglia. Però, lu mieru di quella cantina...

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