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La Repubblica

Il Lambrusco sfida la Spagna “Questo nome appartiene a noi” ... I viticoltori in campo contro le imitazioni “Fermeremo la liberalizzazione delle etichette”... Non bastano le Alpi, non bastano i Pirenei. L’attacco al re Lambrusco, l”oro rosso” del modenese e del reggiano, non potrà essere fermato dalle pur imponenti catene montuose. “Anche noi produciamo vino con i vitigni del lambrusco - dicono i vignaiuoli della Spagna e del Portogallo - e allora abbiamo il diritto di scrivere Lambrusco sulle etichette”. La minaccia fa tremare i polsi (e soprattutto i bilanci) del Consorzio che ha trasformato “l’umile champagne dell’Emilia” (Mario Soldati, Vino al vino, 1970) in un prodotto venduto e pagato bene in mezzo mondo. Nel 2014-sono state messe sul mercato 178252.934 bottiglie, il 63% delle quali destinate all’esportazione, per un valore di 570.409.389 euro. “Fino a trent’anni fa - racconta Ermi Bagni, direttore del Consorzio tutela Lambrusco modenese - il nostro vino era umile davvero. Ogni settimana partiva una nave cisterna diretta nelle Americhe. Ora è diventato un marchio importante, vince i Tre bicchieri e altri premi. Ma sa quanto abbiamo speso e tribolato, per farlo diventare così importante?”. La minaccia si nasconde in un documento di lavoro fatto circolare dalla Commissione Ue nel settembre scorso. “Nero su bianco - spiega Paolo Di Castro, coordinatore Socialisti & Democratici nella commissione agricoltura del Parlamento europeo - c’è scritto che, in nome della semplificazione, si vogliono rivedere le regole e portare a una sostanziale liberalizzazione dell’uso dei nomi fino ad oggi riservati solo ad alcuni vini. Alla Direzione generale Agricoltura e sviluppo rurale dicono che questa è una questione meramente tecnica di diritto comunitario. E invece una questione politica ed economica, visto che può riguardare il reddito dei nostri produttori. Non si tratta, purtroppo, solo di Lambrusco: corrono gli stessi rischi la Barbera, il Brachetto, il Nebbiolo, la Vernaccia, il Vermentino sardo, il Verdicchio, il Teroldego trenti no, il Primitivo pugliese, il Fiano laziale... è già pronto un atto delegato che in linea di massima respinge la piena liberalizzazione ma poi dice che, se ad esempio la Spagna o altri Paesi fanno un Lambrusco Doc, allora possono mettere il nome Lambrusco in etichetta. Insomma, se non è zuppa è pan bagnato. Per questo serve, da parte dell’Italia, un’opposizione forte e chiara”. Ci sono stati già tentativi di attacco, per ora respinti. Produttori spagnoli hanno provato a registrare i marchi “Lambrusco Antico Casato” e “Lambrusco Emilia Canottieri” ma l’Oficina Espagnola de Patentes y Marcas (l’ufficio brevetti), dopo la protesta del Consorzio del Lambrusco, non li ha accettati. “Spendiamo 150mila euro all’anno - dice Ermi Bagni - in cause e diffide. Sappiamo bene che, per ora, la legge è dalla nostra parte. La denominazione di origine, che noi abbiamo dagli anni ‘70, è riconosciuta proprietà intellettuale dello Stato membro della Comunità europea e quindi intangibile. Ma non siamo affatto tranquilli. Se diventasse possibile mettere il nome Lambrusco sui vini prodotti altrove, rischieremmo il tracollo. Vede, il mercato internazionale ha tantissime facce. Il giapponese che compra il Chianti sa benissimo cosa siano Doc, Dopo Igt e Igp e vuole conoscere anche il nome del produttore e dell’imbottigliatore. Ma in Brasile, ad esempio - è il Paese maggiore importatore di Lambrusco - sapranno distinguere un nostro Sorbara o Santa Croce da un Lambrusco prodotto al di là dei Pirenei?”. C’è già aria di mobilitazione, nelle terre dell’oro rosso. Si riuniscono i consigli comunali, si votano ordini del giorno a sostegno dei vignaiuoli. Sabato 30 gennaio ci sarà un convegno ad Arceto di Scandiano con il ministro Maurizio Martina, la Regione, i sindaci, i consorzi. “Già oggi, lunedì - dice il ministro - incontrerò a Bruxelles il Commissario europeo all’Agricoltura, Phil Hogan, per dirgli che non possono assolutamente essere messi in discussione i diritti già acquisiti. Lottiamo ogni giorno perché le nostre denominazioni vengano riconosciute anche fuori dalla Ue. Non possiamo che contrastare iniziative come questa, che sarebbero veri e propri autogol”. Nell’intricatissimo labirinto di regole e normative europee, si stabilisce anche che “per Denominazione di Origine si intende un nome connesso per geografia o per storia a un paese, a una località”. Traduzione: per i produttori di Barolo e Barbaresco, ad esempio, non c’è alcun problema, perché le vigne sono in gran parte nei Comuni che si chiamano Barolo e Barbaresco. Ma paesi e località chiamati Lambrusco, Barbera, Primitivo, eccetera non esistono. Per evitare problemi il Consorzio del Prosecco ha allargato la zona di produzione fino al Friuli, per poter incorporare Prosecco, una frazione di Trieste. A Scandiano si è messo il cartello Lambrusco a una località senza nome, ma la decisione è arrivata fuori tempo massimo. “Non servono sotterfugi”, dice la senatrice Leana Pignedoli, vice presidente della commissione Agricoltura. “Vini come il Lambrusco sono strettamente legati alla terra emiliana, fanno parte della sua storia. Così come altri prodotti sono legati ad altre terre. E allora tutti gli europei debbono difendere e valorizzare le proprie peculiarità, in una gara di competitività fra prodotti legati al territorio. Altrimenti vince l’omologazione globale”. In Italia ci sono 563 vini Dopo o Igp. Per capire quale sia la differenza fra bottiglie con Denominazione di Origine (Do) e quelle senza, basta chiedere i prezzi del terreno. Un vigneto di Lambrusco Do costa 60-70mila euro all’ettaro. Senza Do, fatica ad arrivare a ventimila.

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