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L’espresso

Che delizia quel contadino ... Serve un’alleanza nuova tra cucina e prodotti della terra. La proposta di Ferran Adrià e Carlo Petrini... Il lamento di José Esqumas, agronomo del politecnico di Madrid nominato benemerito dell’umanità dalla Fao, è accorato: “Diecimila anni fa l’alimentazione umana disponeva di 8 mila specie vegetali diverse. In agricoltura oggi se ne usano 150. Dodici specie vegetali e cinque animali forniscono il 70 per cento di calorie e proteine assunte per l’alimentazione umana. Grano, mais, riso e patata tanno la parte dei giganti. “La diversità è una ricchezza e una soluzione alle epidemie che colpiscono una sola specie”, afferma Esqumas: “La carestia irlandese del 1845 non sarebbe avvenuta in presenza di diverse varietà di patate . In Spagna, la diversità e stata letteralmente massacrata: sono solo nove i presidi Slow Food (circa 300 in Italia). Mariano Comez, responsabile di Slow Food Spagna, ribadisce l’importanza della collaborazione tra produttori e cuochi per la difesa di specie autoctone, iniziativa che abbatte i costi di trasporto, e che costituisce una nostra responsabilità verso le generazioni future. Ferran Adrià, in veste di presidente del centro di ricerche scientifiche alimentari Alicia di Mont Sant Benet (alicia.cat), ricorda la prima edizione di Terra Madre, l’emozione del confronto con i contadini che gli insegnarono l’etica. “Io cerco di lavorare a “chilometro zero”, se il prodotto lo permette. Ma anche se tanti chef prestano la propria immagine per campagne ecologiche e solidali, non sempre la comunicazione funziona”. E si che gli chef sono una figura chiave per la valorizzazione della biodiversita: “Perché i cuochi non collaborano a catalogare le varietà autoctone?”, propone Esqumas. In una nazione dove i presidi Slow Food si contano sulle dita di due mani, è una proposta sensatissima. Adrià ci sta, ma rilancia: “E perchè i produttori dei presidi Slow Food non vengono ai congressi di alta cucina a spiegare quello che coltivano, che pescano, che allevano? Mariano Gomez allarga le braccia: “Non l’abbiamo mai fatto, andiamo nelle scuole, però, e anche negli ospedali”. Carlo Petrini è più risoluto: “Non si va a casa d’altri senza invito: se il contadino deve avere più coraggio nel proporsi, i cuochi possono prendere visione dei pubblici elenchi dei presidi. Fa specie a certi convegni ascoltare gli chef che sul palco dissertano dell’acciuga in tutte le consistenze, e constatare che non c’è nemmeno un pescatore a dire la sua”. In tempi di magra economia, per di più, è impensabile che un piccolo produttore affronti i costi di viaggio per recarsi a un convegno. Petrini è comunque ottimista: “I produttori devono trovare il modo di farsi conoscere dai cuochi virtuosi, e i cuochi devono essere più curiosi; è un rapporto destinato a crescere. E il chilometro zero che gli chef percepiscono come castrante? “Va preso senza visioni manichee: l’arte di un cuoco è l’elasticità nell’interpretare un territorio, nessuno gli proibisce le scorribande creative”. E quanto al confine tra natura e artificio, che ha ispirato tanti dibattiti al Forum di Girona? “Non si può tenere al guinzaglio il genio e l’estro creativo”, insiste Petrini: “A essere manichei, la sola cottura, di per s, è già artificio, la cucina stessa è storia di ingegno e di artificiosità. Ma occorre che il cuoco abbia misura di sé. Il genio dell’artificio culinario non è per tutti. Non va mortificata la creatività, ma non va nemmeno esasperata da parte degli epigoni l’emulazione dei grandi”. Come dire: autocritica, compagni. I giochi sulle consistenze, il bilico tra il salato e il dolce, sono virtuosismi che riescono a pochi.

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