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Nazione / Giorno / Carlino

Il re del Barbaresco: “Basta sprechi. Soldi pubblici solo per difenderci dai falsi” ... Angelo Gaja è un numero uno del vino made in Italy... Sulla terrazza del suo castello in centro paese, affacciata su vigneti di Nebbiolo a perdita d’occhio, Angelo Gaja brinda con George Riedel, il maestro mondiale dei calici da vino. “Georg è un missionario, ha insegnato al mondo come si beve il vino. Profumi e gusto cambiano a seconda del bicchiere. La gente va educata ad apprezzare i grandi vini. È come fare l’amore, servono pazienza e passione. Senza passione non si fa niente”. Siamo a Barbaresco, cuore delle Langhe, cuore del Piemonte vitivinicolo, ma soprattutto luogo del cuore di Gaja. “Qui sono le mie radici”, dice coccolando con lo sguardo moglie e figlie che lo affiancano in azienda. Mattatore e testimonial del vino italiano nel mondo, grande personaggio, amante della ribalta, a volte istrione, abituato da sempre ad essere il numero 1, sempre a cavallo tra tradizione e innovazione. Leggendari i suoi vini, leggendari anche i prezzi, inconfondibili le etichette e i nomi (Sorì Tildin, Sorì San Lorenzo, Gaja & Rey, Sperrs, Conteisa) quasi sempre legati a ricordi e luoghi di famiglia. Nel 2009 ha festeggiato i 150 anni della sua casa vinicola non con il solito catalogo ma con una grande mostra d’arte contemporanea che ha ripercorso un secolo e mezzo di impegno e successi. Il tutto raccolto in una sorta di libro-scrigno avvolto in un involucro enologico recante l’epigrafe: “Questa è un’opera libera gratuita, non destinata alla vendita, ma un pubblico di fortunati che la riceveranno in omaggio in Italia e nel mondo”. Non ha timore di andare sopra le righe lui che si definisce (con falsa modestia) “artigiano del vino”, ma che già nell’85 stava sulla copertina di Wine spectator, bibbia americana del vino, che nel 2005 ha messo all’asta da Sotheby’s a Londra alcune rare annate di Sorì San Lorenzo, che si lanciò a vendere il suo vino en primeur, cioè su prenotazione, come fanno a Bordeaux per i premiers crus. E che nelle annate scarse di qualità (1980, 1984, 1992, 2002) non ha imbottigliato il suo Barbaresco (e quanto deve essergli costato..) ancora distinguendosi dagli altri. Ogni sua scelta fa discutere e divide il mondo enologico. Come quando nel 1994 scese in Toscana a Bolgheri a produrre vitigni internazionali nella tenuta Ca’ Marcanda costruendo una cantina spaziale, “una cattedrale del vino”, disse qualcuno. “Ma quale cattedrale - sbotta -. È stata la prima cantina completamente interrata su un terreno piano, a bassissimo impatto ambientale. Un capolavoro dell’architetto Bo”. L’ultimo fronte, le polemiche sulla crisi del vino. I produttori dell’Astigiano scendono in piazza regalando barbera e dolcetto per protestare contro i prezzi bassi. Lui: “Le cantine cooperative chiedono contributi per eliminare le eccedenze ma sono loro che hanno voluto un aumento della produzione della doc Piemonte”. Tra il 2007 e il 2009 le cantine cooperative piemontesi hanno ricevuto finanziamenti pubblici per oltre 8 milioni di euro. “Non meno del 50% è stato speso senza portare benefici. Non meno del 50% delle cantine sociali dell’Astigiano continua a vendere il vino sottocosto e i soci sono tenuti in ostaggio e vengono mandati in piazza a protestare. Ma il male è nel manico, in consigli di amministrazione incapaci, che confidano solo nel sostegno pubblico per ripianare debiti e sprechi”. Il re del Barbaresco (e del marketing) ha le idee chiare: “Tutto il sostegno pubblico vada ai mercati esteri, i marchi italiani devono essere più protetti dalle falsificazioni. In assenza sui mercati esteri delle catene di supermercati italiani, è di straordinaria importanza l’apertura a New York di Eataly che propone le eccellenze del mangiare e bere italiano”. Come evitare che la crisi travolga l’agricoltura italiana? “Sotto il marchio made in Italy spesso si nascondono prodotti in parte realizzati all’estero. Occorre un logo che contraddistingua il prodotto totalmente realizzato in Italia a tutela dei veri artigiani”.

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