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In vigna milioni di bottiglie doc la Romagna punta sull’etichetta di pregio ... Fuori dal cliché del vino popolare da tavola la produzione regionale sfidai mercati mondiali con le numerose proposte di qualità dei colossi Caviro e Cevico e di tante piccole cantine locali il lavoro di restyling dei vigneti ha dato frutti... Dall’Albana passito al Sangiovese autore, passando per il popolare Trebbiano e la riscoperta della Cagnina. La Romagna Felix, come scherzosamente la definiscono alcuni enologi locali, sta puntando su produzioni ed etichette di pregio per uscire dall’isolamento in cui è rimasta confinata finora, legata per anni al cliché del vino “da tavola”. Forti di una produzione Doc di oltre 17,7 milioni di bottiglie l’anno, le cantine romagnole - davanti al calo delle vendite interne - ora stanno scommettendo sull’export per riguadagnare quote. Operazione che risulta più agevole per i due big della cooperazione, Caviro e Cevico, che da soli controllano il 13% del mercato italiano e crescono ogni anno all’estero con tassi a due cifre. La speranza, da queste parti, è di superare l’eterno paradosso che vede il Sangiovese come uno dei vitigni più diffusi, ma sempre “mimetizzato” sotto le spoglie dei più celebri, e premiati, Montepulciano o Morellino. La tradizione enologica romagnola, in fondo, vive da tempo di paradossi: è parte di quell’Emilia che, pur producendo oltre 6 milioni di ettolitri l’anno, fatica a imporsi come marchio di qualità. Da queste premesse è iniziata negli ultimi anni una rinascita vinicola della Romagna, dalle grandi coop alle cantine più ricercate. Il punto di partenza sono i colli: racchiusi tra le piccole province di Imola, Ravenna, Forlì e Rimini. Qui si lavorano in media 478mila quintali di uva Doc ogni anno. E dove le origini della vendemmia spesso si mischiano con la leggenda popolare. A partire dal quel “Sanguis Jovis” usato per la prima volta da un monaco riminese per descrivere ai suoi ospiti le qualità dell’uva sangiovese. A distanza di secoli, questo vitigno rappresenta quasi l’80% dell’intera produzione Doc romagnola: nel 2013 sono state ricavate oltre 13 milioni di bottiglie, dalla tipologia novello alla riserva. L’altro vitigno principe è l’Albana, il primo bianco italiano ad aver ottenuto negli anni Ottanta l’etichetta Docg (ancora oggi l’unica del territorio). Al loro fianco, la Romagna coltiva diversi tipi di bacche, come quelle bianche del trebbiano o quelle del terrano (da cui nasce il vino rosso Cagnina). Un lento lavoro di restyling di vigneti e tecnologie di produzione ha così iniziato a rendere il brand locale appetibile per i palati raffinati. Al centro del progetto c’è lo storico Consorzio Vini di Romagna, nato 50 anni fa per preservare la tradizione enologica del territorio, che riunisce oltre 100 associati tra produttori, cantine sociali e aziende vinicole (tra le curiosità, le sue bottiglie sono contraddistinte dall’immagine di un celebre brigante dell’800). Sotto il suo ombrello lavorano 4.800 viticoltori che rappresentano ben oltre la metà della produzione della zona. Dal picco del 2010 - con 11,1 milioni di bottiglie Doc sfornate dal soci - le vendite nell’ultimo biennio hanno però subito una battuta d’arresto. Flessione che ha toccato molte altre Regioni italiane, dove la crisi ha rosicchiato i margini di spesa delle famiglie, che si sono orientate su fasce più economiche. Secondo l’osservatorio Wine Monitor di Nomisma, la spesa mensile pro capite è ormai scesa a 5euro (e chi ha tenuto i prezzi alti per recuperare i margini spesso è inciampato). L’anno scorso, nonostante un’annata eccezionale sul fronte della quantità, l’imbottigliamento del Consorzio si è fermato a poco più di 9 milioni di bottiglie Doc. Il Sangiovese la fa da padrone con 7,3 milioni di “pezzi”, seguito dal Trebbiano (900mila bottiglie) e dall’Albana (289mi1a). Nonostante le vendemmie siano al palo, premi e gagliardetti negli ultimi anni si sono moltiplicati. Nelle classifiche, anche recenti, si confermano i rossi delle cantine di nicchia come la Fattoria Zerbina e Drei Donà. L’industria del vino in Romagna ha però un tessuto particolare: centinaia di piccole etichette si affiancano - come nella più classica tradizione emiliano romagnola - ad alcuni colossi cooperativi. Su tutti il gruppo Caviro di Faenza, che controlla il 10% del mercato italiano, capace di raggiungere l’anno scorso ricavi per 327 milioni di euro (+15%). Affiancando alle produzioni per la grande distribuzione (come il Tavernello), i vini premium delle sue controllate, come l’etichetta toscana Dalle Vigne e la veneta Cesari (acquisite di recente). L’altro big cooperativo è il gruppo Cevico, con ricavi saliti a 150 milioni (+17%), 23 marchi in portafoglio e diversi wine bar aperti di recente perfino in Giappone. Poi ci sono i piccoli, che hanno risposto alla crisi provando a esportare bottiglie in Paesi dove la cultura del vino è recente: ad amare le uve della Romagna, ad esempio, sono i giapponesi. Tokyo e dintorni rappresentano il 25% dell’intero export delle Doc romagnole. Un altro 6% vola negli Stati Uniti e il 9% in Germania, mentre il primo mercato di destinazione è l’Inghilterra (col 51%). A livello regionale l’export vale 387 milioni di euro e spiccano, tra le cantine di fascia alta più note ai consumatori stranieri, Tre Monti, Fattoria Paradiso, Umberto Cesari e San Patrignano. I dolori arrivano dal mercato interno (dove va peggio ai vini rossi). Le vendite della grande distribuzione sono in calo da un palo d’anni: calcola Nomisma che nel 2013 la diminuzione in Italia è stata del 6,5%, anche se i prezzi continuano a salire (+,9%). Idem nel canale della ristorazione e degli alberghi, che per molte etichette più piccole è stata un’ancora di salvezza in tempo di crisi. Spesso gli ordinativi esteri non bastano a tappare la falla. Secondo i dati Ismea, il 45% del vino romagnolo viene ancora commercializzato attraverso iper e supermercati, mentre le esportazioni viaggiano intorno al 35%. Per questo, i cali nella vendemmia delle Doc romagnole vanno rapportati anche all’aumento di vini Igt e comuni. Segno che alcune aziende, non senza coraggio, hanno preferito “declassare” la produzione piuttosto che ritrovarsi con le cantine piene di botti invendute.

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