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Sette / Corriere Della Sera

Vigne e slow food, così sono rinate le Langhe ... Se un immenso patrimonio è resistito al tempo lo si deve soprattutto a una razza di viticultori che hanno saputo valorizzare, affinare e rendere grandi i vini del posto. E a un gastronomo, Carlin Petrini. “con lui questa terra ha ripreso a pensare in grande”. Parola del critico del Corriere della sera, Langhetto doc ... “Scendevamo, Tobia dietro al freno e io davanti alla bestia, che ogni volta m’aspettavo di veder Alba distesa sotto i miei occhi come una carta tutta colorata. A San Benedetto si parlava sempre d’Alba quando si voleva parlare di città, e chi non n’aveva mai viste e voleva figurasene una cercava di figurarsi Alba”. Chi parla è Agostino, protagonista de La malora, il più forte e volenteroso dei tre figli della famiglia Braida. Per un magro compenso era stato “ceduto” dal padre come servitore a Tobia Rabino, piccolo possidente. Agostino s’incammina per la prima volta verso Alba. “Allora Johnny colse, tra una sella, il primo glimpse della sua città. E risentì orribilmente il suo esilio. Corse giù dove potesse meglio vederla come da un sipario più accentuatamente ritratto, si sedette sul ciglio e con le armi accanto e una sigaretta in bocca riguardò Alba. La città episcopale giaceva nel suo millenario sito, coi suoi rossi tetti, il suo verde diffuso...”. Chi parla è Johnny, giovane studente albese, cresciuto nel mito della letteratura e del mondo inglese, che dopo l’8 settembre decide di rompere con la propria vita e di andare in collina a combattere con i partigiani. Rivede la sua città, e il fiume che l’attraversa, il Tanaro. Nessuno come Beppe Fenoglio ha conosciuto e descritto le Langhe: con quella terra ha un rapporto di appartenenza che s’intreccia con la dimensione letteraria, in un ordito di formidabile potenza. Non si sa bene da dove derivi il nome Langa: secondo alcuni dal latino “lingua” e poi dal francese “langue”, lingua, fascia, striscia di terra. Secondo altri più probabilmente da un nome etnico ligure che sta a significare il castello che sorge sulla sommità delle colline. Per noi nativi “langa” è la cresta della collina, la cima tempestosa, Si dice Langhe perché ne esistono più di una; c’è quella bassa e ricca che da Alba si spinge fin quasi a Mondovì e c’è quella povera e alta che da Alba sale verso Montezemolo, in direzione della Liguria. Io sono nato in quella più sventurata e boschiva, la mia famiglia, ramo paterno, era dignitosamente malestante anche se aveva il vizio di predicare la virtù del riserbo.

Il demone dello stile

Le Langhe non si sono estinte perché i contadini hanno imparato in fretta a fare gli operai e i più fortunati sono andati ad Alba a lavorare alla Ferrero o dai preti, alle Edizioni Paoline, o a confezionare vestiti dai Miroglio. Gli altri si sono avvelenati all’Acna di Cengio o si sono arrabattati alla bell’e meglio, sfruttando l’assistenzialismo della Coldiretti di Paolo Bonomi o il clientelismo dei politici locali. Se un grande patrimonio è resistito al tempo, il tesoro delle Langhe, lo si deve soprattutto a una razza di viticultori, tenaci e intelligenti, che hanno saputo valorizzare, affinare e rendere grandi i vini del posto. Mentre negli anni ‘50, con l’abbandono delle campagne e la fuga verso la Fiat di Torino, il tessuto sociale delle Langhe cominciava a sfaldarsi inesorabilmente, un’aristocrazia contadina (vignaioli, enologi, cantinieri e nobili imprenditori) ha tenuto duro puntando sulle uniche cose su cui si doveva puntare, il vino e la qualità. Se la Langa ha ancora un’identità, se ne sta trovando una nuova, deve dire grazie a uomini come Cesare Borgogno, Giulio Mascarello, Battista Rinaldi di Barolo, Arnaldo Rivera di Castiglione Falletto, Cordero di Montezemolo, Renato Ratti, Giuseppe Tarditi di La Morra, Giacomo Conterno di Monforte d’Alba, Giuseppe Capellano (l’inventore dell’esotico, salgariano Barolo Chinato), Angelo Gaja di Barbaresco (il nonno dell’attuale Angelo). E bisogna dire grazie, in maniera speciale, a Carlìn Petrini, l’inventore di “Slow Food”. Con lui la Langa ha ripreso a pensare in grande, tentando di scrollarsi di dosso il cattivo gusto, i presepi viventi, i finti Pavese, i finti Fenoglio, i politici miopi che sfruttano impropriamente il nome di Einaudi. Il più bel racconto sulle Langhe è La malora di Beppe Fenoglio. percorso dal demone dello stile e da uno spirito di conquista della lingua italiana, rivela una scrittura di ribollente maestà e classicismo, doti irrinunciabili per chi si accinge a coltivare il gusto e preservare un territorio come patrimonio dell’umanità.


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