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Sette / Corriere Della Sera

Qui studiano (anche) come
farci bere un vino più buono ...
Nato 140 anni fa, questo istituto oggi fa ricerca nel campo dell’agricoltura,
e dell’alimentazione. I suoi scienziati hanno decifrato, tra l’altro, il genoma della vite. E ora combattono la zanzara tigre e il moscerino della frutta ... “Per Il 2030 dovremo raddoppiare
la produzione
agricola attuale per soddisfare
le necessità alimentari
della popolazione in continuo aumento
nel numero e nei bisogni. Solo la ricerca
può dare una risposta”. Francesco Salamini
guarda con occhi distaccati a un mondo che
“oggi si cerca di rivalutare con una visione
romantica della terra”, nota, “mentre invece
occorre un metodo più rigoroso e scientifico
per trovare adeguate risposte”. Salamini
dalla sua finestra piena di luce nell’antico
monastero agostiniano guarda gli ordinati
filari delle vigne, gli alberi da frutto, Il verde
ormai esploso della nuova stagione, tutto
ordinatamente distribuito intorno. Ha diretto
il Dipartimento di colture vegetali del
Max-Planck-Institut di Colonia, in Germania,
e ora è alla guida della Fondazione Edmund
Mach, un’istituzione di ricerca nata
100 anni fa, oggi dedicata all’agricoltura,
all’alimentazione e all’ambiente. Una tripla
A che indica gli obiettivi e diventata un simbolo
ricorrente tra i laboratori incastonati
in quest’angolo collinare di San Michele
all’Adige, alla periferia di Trento.
Il nome della Fondazione
entrò nei titoli dei giornali internazionali
nel 2007 quando i suoi ricercatori raccontarono
di essere riusciti, assieme ad altri
centri stranieri, a decifrare il genoma della
vite. Finalmente anche il frutto che aveva
segnato storia e leggenda dell’uomo sin
dall’epoca degli Assiri aveva una sua intima
carta d’identità genetica; passo importante
per proiettarlo verso un futuro più sicuro e
più ricco. Ma era solo l’inizio perché presto
si aggiunsero il genoma della mela, della
fragola, del lampone, del pesco, del pero e
ora si sta completando pure la mappa genetica
dell’olivo.
“Lo scopo è capire come funziona la pianta
consentendo di migliorare la specie proteggendola,
accrescendo la sua resistenza
alle malattie e alle aggressioni ambientali e
consentendo, infine, di trovare nuove varietà
”, sottolinea Roberto Viola, responsabile
della ricerca in Fondazione. Tra le ultime
scoperte raggiunte c’è un aspetto imprevisto
e curioso, una sorta di matrimonio tra
i lieviti e il calabrone giudicato prezioso
per ottenere uve più saporite e quindi vino
migliore. In pratica, i lieviti finiscono per
svernare nell’intestino del calabrone che li
assorbe dagli acini, restituendoli poi alla
pianta superata la stagione fredda.
Ora, a San Michele all’Adige hanno ingaggiato
una lotta contro le pesti dell’ambiente
che aggrediscono le piante. Assieme ai
ricercatori dell’Enea affrontano la zanzara
tigre, sempre più diffusa nella penisola, inserendo
nelle sue uova un microorganismo
che riduce la fertilità. Qualcosa di simile si
sta facendo anche per un tipo particolare
di moscerino della frutta, la Drosophila
suzukii, specie diffusa dal Tibet e famosa
devastatrice delle coltivazioni americane.
Da cinque anni la sua presenza si espande
nella nostra penisola danneggiando lamponi, mirtilli e acini d’uva. Favorita da
stagioni miti, penetra nel frutto creando
un varco in cui deposita larve e facilita lo
sviluppo di funghi. La Drosophila suzukii è
ormai ritenuta una temibile peste dei piccoli
frutti causando guai economici sempre
più rilevanti, e per meglio combatterla
a San Michele all’Adige hanno sequenziato
il suo genoma. “Questi metodi di controllo
”, spiega Viola, “mirano a ridurre sempre
più gli interventi chimici nella difesa
delle coltivazioni”. Ma che cosa succede nell’organismo quando
ci si ciba di un frutto o di un ortaggio?
In un minuscolo laboratorio cercano la risposta.
Su un tavolo ci sono alcuni intestini
artificiali di vetro ben allineati contenenti
liquidi in apparente ebollizione. Ricordano
un po’ gli alambicchi degli alchimisti e
al loro interno alcune sostanze mischiate a
una dose di tradizionali batteri intestinali
umani riproducono quello che accade nelle
nostre viscere quando mangiamo una pera
o un radicchio. “Ciò che succede nel sistema digestivo provoca conseguenze buone o
cattive nel fegato, facilita accumuli di grasso
oppure condiziona addirittura il funzionamento
ottimale del cervello”, precisa
IGeran Tuohy, illustre professore all’Università
britannica di Reading, che ha scelto la
Fondazione per condurre le sue ricerche sui
processi gastrointestinali, una nuovissima
frontiera di studio.
E non è l’unico. Il campus di San Michele
all’Adige è infatti un particolare mondo
internazionale nel quale sono attivi 23o ricercatori
più un centinaio di dottorandi. A
dimostrare che l’ambiente attira cervelli è la
percentuale del i5 per cento di ricercatori di
36 nazionalità e il 30 per cento dei gruppi
diretto da scienziati non italiani. Il complesso
è sostenuto dalla Provincia con un finanziamento
di 42 milioni di euro, 18 dei quali
sono dedicati alla ricerca. Le sue strutture
ospitano una scuola professionale, l’istituto
di enologia e il corso di laurea in viticoltura
ed enologia, oltre a corsi di aggiornamento
in vari campi.
“La logica”, spiega il presidente Salamini,
“è rispondere prima di tutto alle esigenze
locali, formando le persone e compiendo
studi che rendano concorrenziale la produzione
aiutando contemporaneamente
lo sviluppo di piccole e medie aziende
agricole”.
Tecnici del centro sono attivi direttamente
in circa diecimila società per risolvere i
problemi oppure le stesse società possono
chiedere ai ricercatori della Fondazione la
soluzione delle difficoltà che incontrano.
Nell’istituzione trentina il primo obiettivo
è infatti il trasferimento all’esterno delle
conoscenze acquisite in modo da sfruttarle
adeguatamente.
“Ne è nato un sistema di organizzazione”,
sottolinea Francesco Salamini, “che poggia
su tre colonne fondamentali, cioè ricerca,
trasferimento tecnologico e formazione, al
quale guarda anche l’Unione europea come
a un modello ideale da applicare negli altri
Paesi. In questo modo in Trentino superiamo
le difficoltà di cui tutto il mondo italiano
della ricerca agricola soffre per risorse frantumate
e sbriciolamento improduttivo degli
enti che se ne occupano”. Senza trascurare
i minimi dettagli per arrivare al successo.
Alla Fondazione c’è persino un laboratorio
dove esperti assaggiatori valutano i sapori
delle mele per modificarle, se necessario,
e renderle più adeguate alle esigenze e ai
palati dei consumatori; sempre con metodi
naturali.

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